Pensieri alla fine di un percorso

 
 
Un lungo percorso, fatto di interessanti tappe in quasi tutti i paesi delle Valli del Natisone, è iniziato un lustro addietro; un viaggio che ha accompagnato i lettori di questo periodico nella scoperta o riscoperta di questo territorio tra i più suggestivi della nostra regione ed approfondito la conoscenza di figure emblematiche della condizione umana in queste valli. Luogo singolare non solo per la sua fin troppo “naturale” bellezza, ora che la “natura”, appunto, mostra tutta la su invadenza anche nell’appropriarsi di quanto i nostri progenitori erano riusciti a contenderle nel millennio e mezzo da quando vi sono arrivati. Non solo per la sua storia affascinante ed unica, per i resti di gioielli architettonici, per le testimonianze di orgoglio e di antica fierezza, ma anche per la lingua e la cultura della gente che l’ha abitato.
Perchè la vera “storia” non è fatta di grandi imprese, siano romane, slave, patriarcali, venete, napoleoniche o mondiali… è fatta di quella gente, che giorno dopo giorno vive e lavora, come formiche operaie nel formicaio, che con pazienza ed abnegazione lo costruiscono e mantengono, contribuendo a risanarlo o ricostruirlo, dopo che i “grandi “ della storia si sono accaniti a rovinarlo o distruggerlo.
In questi anni di collaborazione col Dom ho cercato, fatto venire alla luce e raccontato piccole storie, veramente, squisitamente, profondamente umane e cristiane, così come la nostra gente le ha vissute. Nel descrivere i paesi, nella ricerca della loro storia e delle loro caratteristiche, aiutato in ciò anche dalla preziosa collaborazione di Stefania Carlig, ho percorso fisicamente innumerevoli strade e sentieri, sono entrato nelle case, a volte disturbandone la quiete e forzandone la clausura, per scoprire mirabili panorami di vita vissuta, di partenze e di ritorni, di avventure, di memorie che, altrimenti, sarebbero state inghiottite nell’oblio del tempo inesorabile e cinico, che macina i ricordi, distruggendone la vitalità come le macine i semi di grano.
Ora mi accingo a concludere questo percorso sebbene mi renda conto che è tutt’altro che concluso. I paesi dei sette comuni delle valli del Natisone non esauriscono il territorio su cui sono sparsi gli sloveni. E quasi per indicare quest’ampiezza che, stavolta, ho scelto di uscire dal tradizionale territorio dei sette comuni, per inoltrarmi verso le sorgenti del nostro fiume, oltre i monti Mija e Joanaz, sui versanti del Rio bianco e del Namlen, dove altri sloveni hanno vissuto le nostre stesse esperienze di vita, come a Prossenicco / Prosnid, Platischis / Plestišča o a Montemaggiore / Briezia.
Da quei luoghi, infatti sono partite 50 anni fa, in un piccolo esodo biblico, 20 famiglie per complessive 90 persone, verso Genova, per fare il grande salto oceanico ed approdare in Brasile, nell’illusione di una terra promessa. Nel testo sotto descrivo questa avventura raccontata dall’ottantatreenne Tranquillo Sedola – Žuanačovih di Platischis / Plestišča, che ora vive a San Paolo. Chi ricorda ancora fatti di questo genere? E’ rimasto qualcuno tra noi, che si chieda i veri perchè di quegli esodi dai nostri paesi, in gruppi più o meno numerosi, singoli o famigliole, i quali alla spicciolata han chiuso porte e finestre, hanno affidato le chiavi a un parente o a un vicino e se ne sono andati, spesso senza neppure coltivare la speranza di un ritorno?
Non ho contato quante persone, in prevalenza anziani, ho incontrato in questi anni del mio girovagare per paesi e piccole frazioni; quante storie, quanti e quali ricordi, tristi e lieti, ho potuto fissare sulla labile memoria digitale, comunque sempre meno labile della mia.
Ed ora mi chiedo: quante di queste persone, che mi hanno dedicato tempo, amicizia, rispetto e fiducia, tanto da affidarmi preziose esperienze e ricordi gelosamente custoditi, potrebbero rivivere oggi i lunghi dialoghi fatti con me in questi anni passati. Di molti di loro rimangono le lapidi fredde e mute e purtroppo esse, in sole due righe, tra le date di nascita e di morte racchiudono il mistero dei giorni di vita trascorsi nell’arco di tempo che le separa. Per quello che io ho potuto, ho rotto quel silenzio e qualcosa di quel mistero si è trasferito sulle pagine di questo giornale.
Provate a bussare virtualmente assieme a me, in una qualsiasi ora pomeridiana, in un qualsiasi giorno dell’anno, ad una porta in un qualsiasi paesino disperso sui nostri monti. Ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta tra oltre 150 nomi e luoghi, e lì, vi fermate, senza sapere se quella porta vi sarà aperta e se chi vi accoglie vuole vincere l’imbarazzo della vostra intrusione. Sarà forse il tipo di approccio, più probabilmente la familiarità del linguaggio sloveno che ci accomuna, a fungere da zlati kjuč – chiave d’oro che apre le porte ed i cuori. Di fatto, tranne rarissimi casi, la sensazione di trovarsi a chiacchierare con “uno di noi”, condizione garantita dalla condivisione del modo di parlare, si traduceva in apertura e fiducia. A quante anziane ho espressamente confidato di vedere nella loro figura i tratti di mia madre! Ed il fatto che esse se ne accorgessero, mi riempie di riconoscenza. Per questo io da questi colloqui uscivo arricchito, a contatto con valori umani e cristiani immensi, espressi senza enfasi, al di là delle sofferenze che la vita ha riservato ai miei interlocutori, temprandone i caratteri con una forza morale impensata.
Spero di aver trasferito, magari un pizzico dei valori di quei vissuti quotidiani nei miei scritti e di aver contribuito con ciò a che il nostro comune passato, fissato anche per iscritto nel nostro linguaggio, rimanga a testimonianza della nostra appartenenza, base dell’orgoglio della nostra identità.

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