Sofia, la saggezza di chi ha Fede, Speranza e Carità

 
 
Fede, speranza e carità. Anche per la Chiesa slava d’Oriente sono tre concetti che si accendono nel cielo della nostra vita spirituale per guidarci verso Dio. «Nel giardino del Signore hai fiorito come olivo fruttifero, santa martire Sofia. A Cristo hai offerto il dolce frutto del tuo ventre, le tue stesse figlie, Fede, Speranza e Carità. Insieme con loro intercedi per tutti noi”. Così canta il Troparion in tono quinto del giorno 17 Settembre, data in cui la Chiesa slava d’Oriente festeggia la memoria di quattro sue figlie, i cui nomi — forse non a caso — già nella vita terrena recavano tracce del loro celeste cammino: Sofia, donna cristiana romana, e le sue tre figlie, Fede, Speranza e Carità (Vera, Nada, Lyubov). Alle sue figlie così diceva Sofia: «Non abbiate paura — quante volte avremmo in seguito sentito questa frase e quanti secoli sarebbero dovuti passare — figlie mie! Siate forti in Cristo! Perdurate nella fede! Non abbiate timore della tortura o della cattiva sorte. Potranno rubare solo i vostri corpi: ma in cielo è meglio. Dio, in cielo, vi darà un corpo meraviglioso. Potranno rubare la vostra bellezza: ma con la bellezza divina splenderete tra gli Angeli nel regno di Dio».
Mi interrompo perché sono frasi che vanno centellinate, sviscerate parola per parola, meditate. Chi, come me ha fatto della professione medica il lavoro di una vita, si è trovato migliaia di volte di fronte a persone che non hanno voluto né saputo andare oltre il concetto di malattia o di caducità della vita terrena o di bellezza. La malattia è solo un qualcosa che separa, che aliena, che diversifica. È un qualcosa di cui non si parla o si parla poco o altrimenti se ne parla, ma se riguarda altri. Quanto a sé, ci si reputa indenni dalla malattia; non si riesce a superare il concetto di male fisico non dico allo stesso modo mistico dei passionisti, ma neppure seguendo i suggerimenti che ci derivano dalla religione e dalla fede. Lo stesso vale per la bellezza, oggi esasperata e oggettizzata ben oltre il suo intrinseco valore: è l’immagine oggi quella che conta: l’esteriore, non l’interiore. Eppure… «Potranno rubare il vostro corpo ma Dio vi darà un corpo meraviglioso e con la bellezza divina splenderete tra gli Angeli»: queste parole sono state pronunciate tra il 117 e il 138, a Roma, durante il regno dell’imperatore Adriano.
Ancora oggi, dopo quasi duemila anni, non sono del tutto capite: ci si deve fermare a meditarle per suggerne succhi nascosti ed inebrianti.
Sofia, una pia vedova cristiana, non ha ceduto insieme con le sue figlie alle lusinghe della bellezza e all’orgoglio di un corpo da esibire. Non sono scese a patti, non hanno desiderato più di tanto quell’abito in più o quel gioiello in più o quel mascara in più: non hanno scelto la dea Artemide, hanno scelto Cristo: «Il vostro sposo celeste — diceva loro Sofia — Gesù Cristo è la salute eterna, la bellezza inesprimibile e la vita eterna. Quando i vostri corpi saranno dilaniati dalle torture, egli vi rivestirà di incorruttibilità e le ferite sui vostri corpi scintilleranno nei cieli, come stelle». Ancora una volta entriamo in contatto con il fabuloso, quel connubio di verità e leggenda che circonda le vite stesse dei santi, allo stesso modo in cui il nembo circonda le loro teste nelle raffigurazioni pittoriche. Ancora una volta possiamo tuttavia notare che esso non stona, non infastidisce, pur nella talora ridondanza non è stucchevole. Aumenta il pathos? Forse. Sottolinea ulteriormente un evento che già da sé basterebbe? Forse. Serviva, nella mentalità dell’epoca, a creare quei piani sovrapposti e quelle sfumature e dissolvenze che la successiva cinematografia avrebbe poi utilizzato per dare più peso a ciò che andava ribadito? Forse. Serve ancora oggi? Forse. Così, veniamo a sapere che alle giovani martiri non venne risparmiato alcun martirio: graticole, pentole di acqua bollente, ruote dentate, frecce, decollamento.
«In cielo, una vita senza fine vi attende — così l’invincibile fede in Cristo faceva dire a Sofia —. Una vita senza fine, una vita senza inizio»: la Vita all’ennesima potenza, che va oltre ogni immaginazione, persino oltre lo stesso sconfinato Universo di cui si stanno perdendo le tracce e che le ultime teorie della Fisica cercano di palettare in sempre più minuscoli punti di inizio e di fine. Sempre più minuscoli ma pur sempre esistenti. Non così la Vita cristiana, smisurata, oltre ogni tempo; allargata, oltre ogni dove. «Non rattristatevi per le compagnie che avete in terra, perché la compagnia di santi vi attende in cielo».
Ero al primo anno di Università. Vennero pubblicati i diari di alcuni prigionieri nei campi di concentramento giapponesi, all’epoca del conflitto mondiale. Si raccontava, tra l’altro, di una donna vietnamita che, costretta a vedere le sevizie inflitte al piccolo figlio, divenne cieca: un caso rarissimo di cecità neurologica, un sofisticato ancorché inutile sistema di difesa messo in atto dal nostro organismo quando il colmo è raggiunto, quando il buio nel baratro del male e del dolore diventa impenetrabile.
È il caso di Sofia. Sofia non venne martirizzata: il suo martirio fu quello di assistere al martirio delle figlie. Estremo dolore per una madre, anche per una madre cristiana. Raccolto ciò che di esse rimaneva, Sofia diede loro sepoltura, fuori città, su una collina. Morì sulla loro tomba. «Una dopo l’altra volarono in cielo: tre bianche colombe, innocenti e pure. Con leggerezza volarono sul trono di Cristo e dopo di loro volò anche l’anima della madre loro, per ricongiungersi con loro in Paradiso».
Questa è la storia che la Chiesa slava d’Oriente narra il 17 settembre a proposito di tre virtù cristiane che divennero nomi di tre fanciulle o, se si vuole, di tre nomi che seppero specchiarsi in altrettante virtù cristiane suggendone succhi inebrianti e, al tempo stesso, regole di vita.

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