Sergio di Radoneš, la forza condivisa della fede

 
 
Secondo le parole di San Girolamo, il deserto è la terra promessa che fa germogliare i fiori di Cristo. Le terre slave rappresentano sicuramente una parte cospicua di questo deserto: le superfici boschive sostituiscono in questo caso le dune, ma l’anima dei mistici a tu per tu con Dio ha gli stessi trasporti di quelle dei monaci della tebaide.
La maggior parte dei santi delle terre slave del XIV e XV secolo sono dei pustynniki, dei solitari, dei monaci eremiti dediti alla vita contemplativa della preghiera a tutto tondo e molto spesso iniziatori di quel forte e saldo monumento spirituale che è stata la vita monastica in quella parte di mondo e in quel periodo storico.
Iniziatore e maestro di tutti è considerato Sergio di Radonež (ca. 1314-1391), non perché sia stato l’unico o il primo, ma per la grandezza smisurata della sua spiritualità: i boschi di Radonež, al limitare della provincia di Mosca, costituivano il rifugio ottimale per poter costruire la propria fede invece che demolirla e creavano la cornice necessaria e indispensabile per le ore di preghiera e di contemplazione. I tempi erano quelli che erano e le suggestioni negative, spesso legate a credenze e leggende, avrebbero potuto scoraggiare chiunque e spesso la dura vita dell’eremo contribuiva ulteriormente a fare ricredere e a tornare sui propri passi. Non fu così per Sergio: le paure ataviche del popolo non ebbero ragione della sua fede: così — come è scritto nella sua biografia — «la città posta in cima al monte non può restare nascosta». Era lui questa città e ben presto tutti poterono vederne i bagliori e le luci. I pochi che ebbero la forza spirituale di restare e di condividerne stenti e preghiere, costruirono più con questi strumenti che con il legno la piccola cappella della Santissima Trinità, quella che nei tempi a venire sarebbe diventata la Lavra, il monastero per eccellenza, il più importante dell’intera fede slava. Le preghiere, a volte, sembrano non allontanare le preoccupazioni degli uomini che in vista di queste perdono il senso di quelle: non fu questo il caso di Sergio a cui apparve la stessa Madre di Dio per rinfrancarlo e dimostrargli appoggio: «Non temere. Le preghiere che tu fai sono ascoltate: d’ora in avanti non avrai pensieri perché il tuo monastero avrà di tutto e in abbondanza. Gli darò tutto ciò di cui avrà bisogno, rafforzandolo e proteggendolo». E’ questo, in ultima analisi, ciò che l’uomo cerca: appoggio e conforto, cioè ‘forza condivisa (cum)’, con gli altri uomini, ma soprattutto con Dio. E per ottenere ciò non esita a spostarsi dal mondo, a dislocarsi in un altro luogo che, per caratteristiche specifiche, possa dare a lui e — nella condivisione con gli altri — ciò che cerca. Fu in questi eremi all’interno di queste foreste del mondo salvo e in questi anni che nacque la famosa formula del rosario monastico: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore». La santità slava è espressione di carità e di amore, mai di giudizio o di lacerazione e gli esempi su cui possiamo basarci — come appunto Sergio di Radonež — attestano la veridicità di ciò.
Se gli spazi circostanti erano immensi e sconfinati, non tutti i monasteri erano grandi: la maggior parte erano formati da due, tre monaci. I migliori dal punto di vista spirituale diventavano cenobi. Anche se non vi era la volontà personale di apparire e dunque tutto era mantenuto negli spazi di un rapporto quasi privato con Dio, come se si temesse che allargando i confini del monastero si stringessero quelli della preghiera.
«Questo nostro beato Sergio nacque da genitori nobili e timorati — il padre era chiamato Kyrill e la madre aveva nome Maria — i quali furono accetti a Dio, giusti davanti a lui e davanti agli uomini». Così inizia la Vita di San Sergio di Radonež scritta dal suo discepolo Epifanio il saggio. I miracoli e gli episodi sensazionali sono presenti in quasi ogni pagina della Vita, ma così è giusto che sia: non solo in vista dei tempi, ma per quel senso di grandezza che compete a chi è veramente grande. Il merito non era infatti di Sergio, ma di Dio stesso: «Diletti figli — soleva dire quando era interrogato in merito a qualcosa che esulava dalla normale comprensione —, se Dio vi ha rivelato ciò, posso io nasconderlo? Quello che avete visto è stato per disposizione di Dio». Dunque, l’umiltà della grandezza espletata sino alla fine. È ancora un brano della sua Vita che ce ne informa: «Vedendo approssimarsi la sua fine, riunì il suo gregge e fece loro promettere di restare saldi nella fede; di essere puri nel corpo e nell’anima; di amare la verità; di evitare ogni male e ogni concupiscenza; di esseere moderati; di vestire umilmente; di non dimenticare di amare il prossimo; di evitare le controversie; di di non porre valore negli onori e nelle lodi; di cercare la ricompensa da Dio». Leggendole, sembrano regole di vita, non atti di fede. Regole sane di vita: quelle che ognuno dovrebbe saper applicare nella propria vita. La difficoltà allora risiede proprio in questo, nella loro applicabilità, nella voglia di applicarle. Allora è questo che rende santi: non o non solo i grandi gesti eroici, ma i piccoli atti quotidiani di vita, quelli che basati su semplici e piccole regole sono in grado di regolare i massimi sistemi della fede e del mondo.
Concluse così la propria vita: «Vi affido all’Onnipotente e all’immacolata Vergine Madre di Dio, affinchè siano per voi un rifugio e una rocca di difesa contro le insidie dei vostri nemici». Affidare è, etimologicamente parlando fino dal XIII secolo, consegnare ‘ad fidem’, con fiducia, ed è la fede la quintessenza della fiducia umana.
Qualcuno ha giustamente definito Sergio di Radonež, il grande restauratore della vita cristiana delle genti slave attraverso l’esperienza mistica legata alla Trinità, con l’indovinata espressione «l’altro di Dio»: nella Trinità, Sergio ha infatti saputo convogliare l’attenzione di quanti, attraverso la contemplazione, hanno voluto e vogliono tuttora vincere l’odio lacerante del mondo. È la sua pace incarnata che irradiando da lui ha permesso che il mondo si ricostituisse intorno al nome di Dio. E per usare le stesse parole di Pavel Florenskij — uno dei massimi teologi russi morto in un GULag — se la Trinità è la casa in cui il cuore slavo pulsa di fede, il costruttore di questa casa è Sergio di Radonež e l’icona delle icone — la famosissima Trinità di Andrej Rublev (1411) — altro non è che la interpretazione grafica della teologia del Santo.
Il 18 Luglio la Chiesa commemora il ritrovamento delle reliquie di San Sergio; il 19 Luglio è la volta dei suoi confratelli di cenobio ad essere ricordati: la festa è stata istituita nel 1981 con un decreto personale del Patriarca Pimen. Il 25 Settembre si celebra il riposo in Dio del Santo morto nel 1392; il giorno 11 Settembre sono invece commemorati i Santi Kyrill e Maria, i genitori di San Sergio. L’importanza del Santo non è dunque stata sottovalutata dalla Chiesa slava d’Oriente che in uno dei canti del Vespro ricorda: «Ogni monaco ti onora come guida spirituale, o venerabile Sergio, padre santo. Tramite te abbiamo imparato a camminare sulla retta via. Fortunato per aver servito Cristo nello sconfiggere il nemico, sei ora in compagnia degli Angeli e dei giusti: insieme con loro supplica il Signore di avere pietà di noi».

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