Rdeča kapica, volk in gorska območja_Cappuccetti rossi, lupi e aree montane

Una certa scuola di pensiero (a volte frettolosamente definita come neo-populista) propone un atteggiamento critico verso ciò che la millenaria cultura occidentale definisce come indiscutibile, ovvero la «legge» – nel senso istituzionale del termine –, e tutto ciò che essa rappresenta; e in particolare tutto ciò che la legge rappresenta sul territorio e sulla configurazione centro-periferia che il territorio «pianificato» e «programmato» assume nei sistemi più evoluti (diciamo, nella nostra Regione, a partire dagli anni ‘60). Di fatto, in certe situazioni, la «legge» diventerebbe, piuttosto che il pilastro sul quale si fonda la stessa idea di sodalizio civile, lo strumento che nuove e vecchie elite centralistiche userebbero verso le periferie, cioè verso i popoli che rappresentano. Questi, dal canto loro, alla fine di un ciclo di modernizzazione, ma anche di sviluppo distorto, sarebbero incapaci di districarsi tra «lacci e lacciuoli» di una «cosa pubblica» ormai degenerata in un «lupo» burocratico.

Senza voler fare troppa filosofia, e senza nulla voler concedere a qualsiasi atteggiamento semplificatorio, è evidente che la democrazia matura (di «fine ciclo») tende a essere afflitta da questa «malattia», dalla tendenza cioè a complicare, a rimuovere (piuttosto che a risolvere) i problemi, fino al punto di fare dell’«amministrazione», nel complesso, il volto di una nuova tirannia; che diventa a volte anche l’alibi per non fare nulla, cioè il «lupo» a cui attribuire ogni colpa (la «bolla» burocratica che «divora» qualsiasi energia, qualsiasi iniziativa ecc.). Come fare? Senza amministrazione, senza apparato, senza leggi, ovviamente non si può nulla.

Allo stesso tempo è evidente che i sistemi umani tendono a perdere capacità di rinnovamento, a diventare nel tempo troppo complessi (perché la complessità aumenta in modo esponenziale): devono affrontare sempre nuovi problemi (es. oggi la pandemia, ma anche la rivoluzione tecnologica, le tensioni indotte dalla globalizzazione, un welfare sempre più costoso), che solo il «pubblico» può provare a risolvere.

È un discorso molto ampio, ma che significa molto per la nostra locale e piccola realtà di montagna, come in genere per qualsiasi periferia, sia sul territorio, che nell’economia, sia per la cultura che per le questioni che riguardano l’identità: per la minoranza slovena, in particolare, come per tutte le minoranze, significa rischio di emarginazione, sottosviluppo, spopolamento, e soprattutto significa una frattura (appunto tra centro e periferia) che porta ben presto all’incomunicabilità, eventualmente al conflitto, più spesso all’autodistruzione (è la storia recente degli insediamenti montani in tutta la Regione, a rischio di estinzione). È sufficiente – per parlare solo delle nostre valli – una gita tra Benecia e Tarvisiano, nelle valli del Torre e del Natisone, per rendersi conto di quanto inefficace sia stata la politica degli ultimi decenni: ovunque rovine, paesi spopolati, caserme e capannoni dismessi, grandi superfici in stato di abbandono (a rischio di proliferazione di discariche illegali), infrastrutture inutili o inutilizzate, e anche e ovunque un’insopportabile sensazione di spreco di risorse. Tutto ciò al contrario delle aree limitrofe – basti pensare alle contigue aree montane, a Trentino e Cadore, senza andare oltre confine.

Tutto ciò è dovuto a fattori difficili da comprendere (di tipo culturale, generazione, identitario), ma anche a iniziative sbagliate, e a una serie di errori imperdonabili sia della politica, che della società in genere.

A volte sembra che qui – in particolare – la politica semplicemente giri a vuoto, impegnata in problemi tutto sommato secondari (per es. a ridisegnare la ripartizione geo-amministrativa, tra UTI, ITU, ATO, riverberando le battute di Mario Marenco, una battuta che mi concedo, ma che vale solo per i meno giovani), a destrutturare le riforme realizzate dalle amministrazioni precedenti, a discutere di grandi progetti che si sa già in partenza non saranno realizzati; e, da un altro punto di vista, ad affrontare ristrettezze e carenze nella conduzione quotidiana di comunità sempre più in crisi.

A questo riguardo, lodevole è l’intento di elaborare nuove leggi sulla montagna, che – leggendo le bozze – sembrano rispecchiare una nuova consapevolezza, per cercare di avvicinare la società alle élites; ma forse è giunto il momento di tentare nuove strade. Forse è il momento di cambiare: l’intervento della politica – nella ricerca di qualche cosa di «organico » da programmare e pianificare – rischia ancora una volta di sbagliare, e comunque di produrre qualcosa che non viene percepita come utile dalla popolazione. È evidente che ormai la spesa pubblica – senza che per questo Keynes debba rivoltarsi nella tomba – ha perso in efficacia, così come l’iniziativa pubblica in genere (per motivi che abbiamo altre volte cercato di comprendere). Gli strumenti di cui si avvale appaiono «spuntati», e in altri casi ridondanti o auto-referenziali, a volte semplicemente vani. Un fatto che riguarda sia i servizi essenziali (la conduzione delle attività quotidiana), che le funzioni strategiche della politica.

È evidente che per il trasporto pubblico è necessario elaborare certi standard di accessibilità, fasce orarie, itinerari, capacità, e che a volte è meglio distribuire un «coupon» per un taxi locale, piuttosto che far girare corriere sempre vuote: quello che manca è l’abbonamento «all inclusive», che per altre regioni è da tempo prassi normale, un dispositivo integrato tra bus a chiamata, taxi, treno ecc., di semplice fruizione (ma che da noi non si riesce per qualche motivo a ottenere). Così un po’ per tutto: sotto certe soglie diventa tutto troppo complicato, con servizi essenziali che esistono «sulla carta», non sempre nella realtà. Senza negozi di prossimità, pediatra, asili nido (con costi accessibili anche per ISEE di fascia media, è incredibile che nessuno ci pensi), senza neppure osteria, bancomat, pompa di benzina e fermata del bus nessuno resterà nei paesi (nel mio paese hanno chiuso in sequenza negli ultimi anni negozio, posta, asilo, e anche la scuola orgogliosamente intitolata ad Armando Diaz, non solo generale vittorioso sugli austriaci ma anche ministro del Duce, complice della «bonifica etnica » di cui il Duce è stato promotore in quegli anni); infine ha «chiuso» anche la messa domenicale: come si discute tra paesani, speriamo che non chiuda almeno il cimitero (magari chiederanno l’ISEE anche per andare all’altro mondo).

Qualche cosa del genere riguarda anche l’economia. È evidente che senza una politica di filiera – nell’economia del bosco, nelle attività artigianali e commerciali, nelle energie rinnovabili – non è possibile mantenere in loco alcuna economia efficiente, in grado di auto-alimentarsi e di rendersi indipendente da «sussidi» esterni.

Senza una certa economia agraria (dall’orto di casa ai nuovi settori del bio-organico, alle tante straordinarie malghe ormai semi-deserte), le fattorie sono destinate a svuotarsi, così come in genere comunità e insediamenti con una storia millenaria: intere stratificazioni di edificato, di paesaggio, di tradizioni materiali e immateriali, di grande pregio, sono ormai a rischio di degrado irreversibile, così come intere vallate a rischio di desertificazione – una questione che oltre a tutto pone il problema di costi insopportabili per tutta l’amministrazione, visto che il territorio abbandonato rappresenta un costo netto da molti punti di vista.

Un fatto, questo, che rende evidente il carattere obsoleto del principale strumento di cui la politica della montagna degli ultimi decenni (dal 5B in poi, tanto per capirsi, erano proprio i tempi di Mario Marenco e di Alto Gradimento), cioè il «contributo» – altrimenti detto «sussidio», ristoro, sostegno ecc., mito e tabù di un’epoca: uno strumento che, come molte altre «misure», ormai, non riesce che in minima parte a colpire nel segno, che più spesso viene utilizzato troppo tardi, rischiando di rappresentare fondamentalmente uno spreco; e che a volte sembra essere ben presto «preda» di lobby ormai ben infiltrate negli apparti.

Forse è il caso di sfatare il tabù: il «contributo» viene erogato dopo un ciclo di programmazioni, di progettazioni, di controlli (ex post ed ex ante, oltre che «durante», cioè nel periodo in cui viene concretamente utilizzato), finendo spesso per cadere fuori dal bersaglio per il semplice fatto che la realtà, in cui le iniziative economiche devono svolgersi, corre in modo molto più veloce. Si tratta di procedure molto costose, cui si dedica ormai una parte consistente dell’apparato (come si usa dire, ormai sono più quelli che controllano che quelli che lavorano).

Di fatto, secondo alcuni calcoli, il beneficio che il «contributo» produce (il moltiplicatore) per individui, famiglie, imprese, comunità locali, detratte spese di gestione, accessorie, di istruttoria, garanzie, rischio, controlli di merito, di legittimità, e quant’altro, si dimezza, o anche si dissolve del tutto (come evidentemente è successo sino ad ora).

Molte delle spese che lo stesso «contributo» va a coprire sono generate dallo stesso funzionamento amministrativo a scale diverse (locali, regionali, nazionali, comunitarie, «globali»). Di fatto l’impatto che il «contributo» produce si rivela spesso essere nullo.

Abbiamo visto come nelle politiche per la montagna il «contributo » – altrimenti detto «sussidio», ristoro, sostegno ecc., mito e tabù di un’epoca: uno strumento che, come molte altre «misure», ormai, non riesce che in minima parte a colpire nel segno, che più spesso viene utilizzato troppo tardi, rischiando di rappresentare fondamentalmente uno spreco. Allora sarebbe forse il caso di agire in modo diverso, di intervenire – e di investire all’inizio del ciclo, e creando un effetto «a priori», anticipando il «contributo» in forse diverse. Una manovra difficile, ovviamente, che significa intervenire con modalità di defiscalizzazione e semplificazione sistemica (con l’abbattimento di costi pregressi, appunti di sistema), con una logica di intervento per aree, per «finestre» temporali, per «settori », per funzioni e filiere (es. residenza, produzione, servizi, cura del territorio). Così soprattutto in ambito montano – dove i costi sistemici son prevedibilmente maggiori – applicando ragionamenti «integrati»; un caso macroscopico è quello della filiera dell’energia, che si sviluppa dal «bosco all’impianto a biomassa» (pubblico o privato che sia), che di per sé permetterebbe di valorizzare il lavoro locale, ma che è ancor oggi sottovalutato: le politiche sembrano continuare a favorire gasolio e altre risorse fossili, importate da decine di migliaia di km di distanza, a discapito di fonti locali, pulite e altrettanto efficienti, capaci di attivare circuiti di economia locale in grado di auto-sostenersi (quindi convenienti anche fiscalmente).

Finalmente, tutto ciò dovrebbe riguardare soprattutto le tasse (forse basterebbe un uso «sistemico» del credito di imposta, che ciascuno possa calcolare in proprio, senza dover andare dal commercialista), applicando fiscalità di vantaggio, franchigie varie, qualche tipo di «flat tax» o di forfait per imprese e famiglie, e – immaginiamo – soprattutto per giovani che avviano attività.

Un esempio su tutti è il superbonus (centodiecipercento) con il quale molti di noi stanno cercando di confrontarsi, ma che si rivela essere la solita misura ex post, propagandata con titoli da prima pagina, ma di fatto troppo complicata e soggetta a vincoli eccessivi. Così per le imposte su immobili, terreni e risorse agrarie: la fattoria, il bosco, il campo, la malga che sono, oltre che «prima casa», il «capitale originario» del contadino di montagna, un elemento di solidità, ma anche un potenziale di opportunità: questi spazi possono diventare qualsiasi cosa, un affittacamere, un laboratorio artigiano, un itinerario naturalistico, un presidio slow food, un ristorante stellato, quindi attività che poi sarebbe possibile proficuamente tassare.

Elementi che rappresentano soprattutto il primo elemento di identità – un valore incommensurabile e non tassabile: chi riconosce la propria identità, idealmente oltre che funzionalmente, in una comunità, in un paesaggio, in una casa dove si svolge la vita di generazioni, non abbandonerà tutto alla prima difficoltà (come capita spesso alle iniziative promosse da «contributi»), ma potrà sempre sperare di recuperare (un elemento di resilienza, come si dice oggi).

Tutto ciò significa predisporre delle zone franche (magari recuperiamo se serve anche il trattato di Osimo!) per le aree di crisi; tutto sommato, un’operazione vantaggiosa anche dal punto di vista del «lupo» amministrativo: qualsiasi cosa è meglio di un’area spopolata, oppure dove si sopravvive in modo improvvisato, a volte in un limbo di economia sommersa (un effetto particolarmente grave, che riguarda le aree periferiche, che si diffonde in queste aree quasi come istinto di sopravvivenza, in forme di «economia di vicinato«, che dovrebbe essere oggetto di riflessione: l’economia informale fa spesso diventare «nemici» i vicini, che inevitabilmente tendono a guardare «nel piatto», appunto, del vicino, alimentando diffidenza).

È dagli anni ’60 che la Regione fa pianificazione: incalcolabili le risorse utilizzate, difficili da valutare i risultati ottenuti; tante, come oggi si può ben dire, le occasioni mancate, così come tanta è l’esperienza maturata (di cui fare tesoro). Oggi ci ritroviamo al punto zero, forse di crisi definitiva, che caratterizza non solo il territorio della minoranza slovena, ma tutta la montagna.

Una nuova legge potrebbe apparire come un ennesimo libro dei sogni; l’esperienza porta a pensare che fare buona pianificazione non è la soluzione di tutto, e che la stessa legge dovrebbe prima di tutto semplificare il quadro pre-esistente (già questo è una sorta di tabù), altrimenti si traduce – come è ovvio – soltanto in nuove carte da leggere, cioè in nuova burocrazia.

Soprattutto bisogna considerare che la situazione oggi è compromessa e che la società locale è talmente indebolita, anche demograficamente, da apparire inesistente, tanto che qualsiasi applicazione di leggi nuove ancorché avvedute (e con esse qualsiasi intervento di spesa pubblica, senza un controllo effettivo dal basso, che solo una società locale efficiente può garantire) si rivela inefficace o anche controproducente.

Nuove infrastrutture provocano paradossalmente nuovo isolamento, interventi a sostegno dell’edilizia danno origine a villaggi di seconde case vuote (a parte la «riscoperta» delle stesse in quest’anno pandemico, ma c’è da giurare che già dal prossimo anno saranno nuovamente tali) o ai cd. «scheletri» o a cantieri «infiniti», che divorano sempre nuove risorse, alimentando sempre nuove lobby.

Il risultato è una spesa pubblica che invece trascura le vere necessità, con un territorio montano – sia quello naturale, che quello antropizzato e infra-strutturato – che si presenta in una sequenza di ruderi sia nell’edilizia, che nell’economia e nella cultura. Un ambiente soprattutto in cui i servizi essenziali (ambulatorio, approvvigionamento, ma anche accessibilità, asilo-nido, autobus/treno, scuola in lingue locali) sono ovunque a rischio (e non potrebbe essere altrimenti considerato l’indebolimento della società locale). Un ambiente in cui l’iniziativa privata, e qualsiasi vera e propria imprenditoria locale, radicata nelle comunità, e consapevole delle risorse locali, si dissolve, così come interi settori dell’economia: per la nostra montagna sarebbe possibile fare una lunga lista di opportunità mancate per intere generazioni costrette alla migrazione o alla precarietà.

Si pensi al Canal del Ferro, e al magnifico «canyon» disegnato da un’infinità di cascate spettacolari, e alle acque smeraldine del Fella – nascoste alla vista da una lunga serie di viadotti di cemento; si pensi alla Valcanale, dove pure si è investito notevolmente negli ultimi decenni in edilizia, ma che oggi risulta essere priva di strutture ricettive di rappresentanza (il motivo per cui vari eventi di prestigio sono andati perduti; è il caso di «Ein Prosit», evento che è «migrato» in pianura, e ovviamente delle gare di Coppa del Mondo di sci e simili che in passato erano normalmente inserite in un calendario di eventi di grande richiamo). Si pensi alle valli della Benecia, certamente vocate per il turismo «slow», ma dove si fa fatica a trovare un albergo con piscina o un family hotel, una pista ciclabile da praticare in sicurezza.

E questo nonostante le stesse valli siano sede di un patrimonio edilizio (sia pubblico che privato) straordinario che consiste in castelli e castelletti medioevali, borghi millenari, conventi e fattorie abbandonate, ville e hotel (che nel caso della Valcanale, risalgono all’epoca aurea della «bella epoque» tarvisiana), di risorse naturali, turistiche e culturali che non è esagerato definire uniche.

Ma sarebbe fin troppo facile oggi fare liste di questo tipo, cui corrispondono altrettanti errori di programmazione. Quello che vale per gli edifici in stato di degrado, vale per il paesaggio, per l’economia, per le attività sportive e commerciali, per la natura, per la stessa identità delle minoranze che vi risiedono; e vale anche per la nostra Rdeča Kapica – la Cappuccetto Rosso dello sviluppo –, riuscirà finalmente ad arrivare dalla nonna? (Igor Jelen, docente di geografia politica ed economica all’Università di Trieste)

Profesor politične in gospodarske geografije na Univerzi v Trstu Igor Jelen se sprašuje, kako bi lahko deželni zakon za gorska območja v pripravi res podpiralo in spodbudilo splošno življenjsko, gospodarsko in družbeno sliko na gorskem predelu Dežele Furlanije-Julijske krajine.

Vprašanje je bistvenega pomena tudi za slovensko manjšino v videnski pokrajini, saj ta prebiva predvsem v obrobnih in gospodarsko šibkejših gorskih dolinah. V tamkajšnjih razpršenih vaseh pogosto pogrešajo že temeljne storitve.

Upravitelji so v letih večkrat poskusili rešiti tamkajšnje težave preko reform krajevnih avtonomij in zagotavljanja javne podpore. Profesor Jelen opozarja pa na potrebo po povratku h kmetijstvu in po medsebojni povezanosti gospodarskih področij. Poleg tega je treba razmišljati o tem, kako izboljšati dejansko učinkovitost javnih prispevkov, ki jih uprave namenjajo tem območjem.

Izboljšanje davčnega sistema, olajšanje administrativnih bremen in morebitne gospodarske proste cone bi lahko pomagali, vendar bi še več lahko pomagalo bolj učinkovito razvojno načrtovanje, ki je doslej bilo večkrat pomanjkljivo. Veliko lahko prispevajo krajevni ljudje in akterji, ki se zavedajo, kateri so domači viri in kateri so domači potenciali.

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