Ogni lingua è un tesoro inestimabile_Vsak jezik je neprecenljiv zaklad

Era il dicembre del 2001, quando il Consiglio d’Europa proclamò per il 26 settembre di ogni anno la «Giornata europea delle lingue» con lo scopo di incoraggiare l’apprendimento delle lingue nel vecchio continente. Per questa ricorrenza gli Stati membri ricevono un aiuto economico ed operativo per organizzare opportune attività. Ragioni per prendere sul serio una questione come quella della diffusione della conoscenza plurilinguistica e la salvaguardia delle diversità ce ne sono a iosa, basti pensare che in Europa ci sono ben 225 lingue indigene, senza contare l’apporto supplementare degli immigrati e dei rifugiati. Se a Londra si parlano 300 lingue non è detto che un numero simile non si raggiunga anche a Milano o a Roma. Pertanto questo non è un fenomeno sociale e culturale che può venir sottovalutato e persino ignorato.

Wikipedia riporta un sondaggio (Eurobarometro speciale 243) del 2006 nel quale informa che una percentuale consistente (il 56%) dei cittadini europei di allora parlava una lingua diversa dalla

propria lingua madre. Dati più recenti relativi alla conoscenza oltre la propria delle lingue più diffuse in Europa – tra i 15 ed i 34 anni d’età – vedono all’apice l’inglese (41%) seguito dal tedesco (21%) e dal francese (20%). Evidenziando, ovviamente, una decrescita percentuale progressiva con l’aumento dell’età; segno che il plurilinguismo sta avanzando, spesso per «virtù», ma soprattutto per la necessità di intessere rapporti culturali ed economici.

L’Italia non figura bene nelle classifiche della conoscenza linguistica, rimanendo – nella fascia d’età detta sopra – per l’inglese al 13%, per il francese all’8,5%, per lo spagnolo al 6,5%, scendendo al 2% per il tedesco. Per dire, i nostri giovani (anni 14-34) con l’inglese, per ora tra le altre lingue più utili, non se la cavano granché bene, fermandosi al 19,4%, in confronto con i giovani tedeschi, che quasi li raddoppiano giungendo al 38,3%.

Le 24 lingue ufficiali dell’Unione europea, in cui vengono redatti i documenti comunitari, a pensarci bene, essendo un decimo di quelle autoctone delle popolazioni europee, segnano già da sé il probabile nefasto destino delle rimanenti, di quelle che non assurgono al rango di «nazionali».

Ricerche dell’Ocse preconizzano che per la fine del nostro secolo verrà registrata la probabile scomparsa del 90% dei 6/7 mila idiomi parlati ancora oggi nel mondo. Sarà l’effetto indiretto della ruspa inesorabile del «progresso », così come viene inteso il termine oggi, quando gli si attribuisce prevalentemente l’aspetto economico.

È vero, ogni metabolismo – parlo del progresso così inteso – macina ciò che inghiotte e lascia dietro di sé le proprie scorie. Ciò vale anche per le lingue e le culture più deboli, quelle che il «progresso» ritiene poco produttive. Non ne è esente alcun continente e men che meno il continente europeo.

Giustamente il Consiglio d’Europa cerca di rallentare il fenomeno promuovendo la conoscenza plurilinguistica anche in vista dei benefici che la comunicazione diretta apporta nei rapporti interetnici e interlinguistici. Tuttavia, a mio parere, ha come correlato un effetto divergente: promuovendo la conoscenza delle lingue forti, quelle ritenute più utili, implicitamente relega nella secondarietà quelle deboli, quelle meno diffuse, quelle prive di reali ed efficaci supporti come le lingue delle cosiddette minoranze linguistiche. Infatti, la comunità slovena cui apparteniamo lo prova nella propria quotidianità.

Nell’intento del Consiglio, ovviamente, non c’è di certo la sottovalutazione dell’importanza culturale di ogni forma linguistica, ed infatti propone iniziative in ogni settore della problematica, ma è ovvio che le lingue meno diffuse corrono i rischi maggiori a seconda della loro stessa esiguità. Se l’italiano può contare su oltre 60 milioni di parlanti, lo stesso non si può dire, ad esempio, per lo sloveno sia in patria che nelle periferie, vale a dire le minoranze esterne alla Slovenia. Non parliamo poi delle varianti linguistiche ad essa collegate.

Non c’è quindi da meravigliarsi che nel caleidoscopio linguistico europeo le centinaia di sfumature cromatiche tendano inesorabilmente ad uniformarsi ai colori primari.

Va detto però, non per inciso, che ogni volta che muore un idioma cadono in disuso anche le tradizioni, i saperi e le opere artistiche di un determinato popolo.

I linguisti, negli ultimi anni, si stanno adoperando molto per salvaguardare gli idiomi a rischio di estinzione, consapevoli del disastro storico e artistico che ne consegue. Si assottiglia inesorabilmente il numero dei parlanti nelle lingue meno usate e sempre meno efficace è il travaso intergenerazionale dei saperi. Quanti sono i casi nel mondo dove poche persone sono rimaste come uniche testimoni di una maniera di comunicare che non ha più interlocutori!

Ancora, e con forza, va ribadito che una lingua non è fatta solo di parole e grammatica; è una rete di storie che mettono in contatto tutte le persone che usano ed hanno usato in passato quella lingua; essa ha in sé tutte le conoscenze che una comunità linguistica ha lasciato ai suoi discendenti.

Purtroppo la scomparsa, la morte di una lingua è come la morte di una specie. Con essa si perde un anello della catena e tutto ciò che quella parte significava per il tutto. Un mosaico che perde tasselli e colori. Che gli succederebbe se le centinaia di sfumature (225 lingue europee) i colori si riducessero a 24, le lingue ufficiali dell’Unione Europea?

Riccardo Ruttar

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