Non c’è sviluppo senza l’uomo_ Brez človeka ni razvoja

Un normale giovedì di febbraio, pieno di sole alle quote più alte delle nostre Prealpi. Un afflusso davvero inusuale di automobili che hanno invaso ogni possibile spazio di parcheggio nel paesino valligiano di Kravar/Cravero in Benečjia. Un fenomeno che si ripete con la stessa frequenza con cui un nostro compaesano ritorna a qualche passo dal luogo dove ricevette il battesimo per restarvi per sempre sotto una lapide. Questa volta si trattava del minore di noi, cinque fratelli, cui abbiamo dato l’estremo saluto assieme a molti, tanti, che hanno voluto farlo di persona. Da queste pagine li ringraziamo di cuore per questo gesto di compianto e di solidarietà. Francesco se lo meritava un estremo saluto corale.

Il paesino in cui siamo nati, Ješičje/Iesizza, dista dalla chiesa parrocchiale di Kravar, una mezzoretta di cammino lungo l’antica mulattiera e lì sono tornato in un tumulto di sensazioni interiori. Lì, tra le case, nei viottoli, dove incontravo i miei famigliari, la gente conosciuta da sempre, mi rendevo conto che quel mio fratello non l’avrei più incontrato, non l’avrei salutato col solito: «Kuo ti gre, Franc?». Il banale: «Come la va?».

Vuota la stradina che porta ai «Zad Tih», quelli là dietro, l’ultima casa in cima al paese. E mentre cammino si susseguono nella mente i nomi, i volti, le attività di coloro che una volta riempivano di vita quelle case, tante di esse oggi vuote. Troppo pochi i rimasti. E ripenso, ricordo e li riconto quasi a mente nei tempi che furono. Quando avevo 14 anni (1961) codesto mio paese contava 114 abitanti, residenti e Kravar 138. Ai miei 50 anni (1997) l’Istat segnalava per il Kravar 37 residenti e 38 per Ješičje. Oggi per contarne una trentina non occorre l’ausilio del pallottoliere; ed è anche tra i fortunati paesini di montagna, che, tra alti e bassi, non si è ulteriormente dimezzato nell’ultimo ventennio. Ma appare avvilente il vuoto e l’abbandono di troppe abitazioni sprangate. Qui c’erano i Tamažovi, laggiù i Klinjčanjovi, sulla strada i Bosovi, di fronte i Lazarjovi… e via elencando e riproducendo mentalmente i volti degli abitanti di decenni trascorsi.

E penso ai progetti di «sviluppo» delle zonemontane sulla fascia slovena di confine. Proprio non riesco a togliermi dalla mente il fallimento di ogni progetto di rinascitaquando viene a mancare la persona, la famiglia, il paese abitato. La Benečija,

o chiamiamola Slavia, è solo un angolino di territorio regionale ma mostra nel suo piccolo cosa voglia dire la perdita delle forze vitali, di quello che i demografi chiamano ricambio generazionale. Qui siamo all’estremo ma, purtroppo, il fenomeno demografico involutivo è generalizzato in questa nostra Italia demoralizzata, impaurita e sfigata. Lo dicono gli studiosi dei fenomeni sociali che non si ha più nemmeno il coraggio di fare figli. Irresponsabilità? Paura di esporre i figli a un mondo in sfacelo? Mancanza di mezzi? Se penso che nella storia delle Valli del Natisone il picco demografico sia stato raggiunto nell’immediato primo dopoguerra viene da fare qualche confronto: i sette comuni che oggi contano a malapena 5.000 residenti, allora, cento anni fa, dopo le tragedie ricordate come «Caporetto», ne assommavano 17.640 (censimento del 1921). Allora c’era una vera voglia di sopravvivenza. Oggi sembra che questa stessa forza di autoconservazione si stia esaurendo.

Quando leggo di certi studi che riguardano il futuro della nazione, viene da chiedersi se ne stia andando anche l’ultimo buonsenso. E sì, si fanno progetti sui miliardi europei e si ipotizzano crescite economiche e di benessere eccezionali, ma qualcuno obietta: «Se si vuole crescere, come si fa a reggere 200 mila occupati in meno per ogni anno, grazie all’abisso della curva demografica?». E aggiunge: «Tra i tanti quesiti dell’equazione italiana, questo ha una forza strutturale che solo i ciechi o malfidati possono ignorare». La soluzione ci sarebbe, per ammorbidire i rischi, visto che l’Italia quei «necessari occupati» non ce l’ha. E ha bisogno di gente che faccia quei lavori che i nostri concittadini preferiscono evitare.

I lavoratori che mancano sono quelli a basso titolo di studio e senza pretese da laureati. Ci sarebbero. Ma dovrebbe cambiare qualcosa nella politica migratoria e nella mentalità – mi si permetta di dirlo – razzista e discriminatoria della nostra società. Senza un’inversione di rotta ed una nuova consapevolezza dei rischi legati al fabbisogno di nuove energie umane, il tenore di vita cui siamo abituati subirà conseguenze difficilmente trascurabili.

Riccardo Ruttar

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