Le portatrici della Slavia a mani vuote_Beneške nosilke so ostale praznih rok

Il romanzo «Fiore di roccia» (Milano, Longanesi 2020) della gemonese Ilaria Tuti ha il merito di far conoscere al grande pubblico l’epopea delle portatrici che, nel corso della Prima guerra mondiale, rifornivano di viveri, munizioni e medicinali i soldati dislocati nelle trincee del fronte carnico, che andava dal Peralba alla Val Resia. Salivano dai fondovalle con la gerla sulle spalle, che arrivava a pesare anche 40-50 chili, lungo i ripidi sentieri, con ogni condizione di tempo e sotto la minaccia di essere colpite dai cecchini austriaci. Tra le 1463 giovani donne ingaggiate nella zona di operazioni della Carnia ne sono comprese ben 78 della Val Resia.

Con una legge del 1968 e con successivi provvedimenti la loro preziosa opera è stata giustamente riconosciuta attribuendo loro il titolo di Cavaliere di Vittorio Veneto del quale furono insigniti tutti i reduci della Prima guerra mondiale.

Per quanto riguarda la Benecia, solo le portatrici del comune di Taipana ebbero i dovuti riconoscimenti. «Dalle cronache del tempo veniamo a sapere che un primo gruppo di Portatrici venne insignito del Cavalierato il 3 novembre 1974 mentre a un secondo gruppo, di ben 44, venne concessa l’onorificenza il 15 agosto 1975» (I sentieri delle portatrici nella Grande Guerra, a cura di Luca Cossa, Aviani& Aviani, Udine 2020, p. 102). Dagli elenchi ufficiali risulta che erano 52 le portatrici di questo comune.

Quasi del tutto sconosciuta è, invece, l’epopea delle giovani donne dei rimanenti comuni della Benecia che operarono a ridosso delle trincee del fronte dell’Isonzo.

A quanto risulta, non ci fu alcuna iniziativa per individuarle e premiarle. «È una grave lacuna storica che ha impedito il doveroso riconoscimento a queste donne ma ben più grave è il fatto che la loro opera sia caduta nell’oblio della Storia. […] Sicuramente, al fine dell’ottenimento dei giusti riconoscimenti dei meriti di queste Portatrici, mancò la necessaria sensibilità e perseveranza da parte delle istituzioni, e dei loro rappresentanti, all’indomani del promulgamento della legge istitutiva dell’Ordine di Vittorio Veneto» (Ivi). A rimediare in parte a questa grave mancanza è stato il comune di Prepotto che nel 2004 fece apporre una targa su un masso posto accanto al monumento ai caduti. Vi sono riportati i nomi di 22 donne e di un uomo che prestarono la loro opera sul fronte che sovrastava la Val Judrio.

Le portatrici della nostra Slavia, come scrive Giuseppe Del Bianco nel secondo volume della sua monumentale opera La guerra e il Friuli (Udine 1939), entrarono in azione già il 25 maggio 1915, vale a dire il giorno seguente l’inizio delle ostilità tra Italia e Austria, quando «le truppe alpine che avevano raggiunto lo Stol, vennero a trovarsi in una situazione alquanto imbarazzante, avendo esaurito le provviste e le riserve d’acqua, e non essendovi possibilità per provvedersi di rifornimenti». Fu don Antonio Cencig, originario di Canebola e vicario di Platischis, ad organizzare gli abitanti di Montemaggiore, Monteaperta e Platischis, specialmente le donne che, «caricate a Nimis gerle di pane e di formaggio, e nelle ultime fonti riempiti orci d’acqua, portarono pesanti carichi sullo Stol rianimando i soldati e consentendo loro di rimanere su quelle impervie posizioni due o tre giorni» (p. 33). «A Timau e a Paularo, in zona carnica, ed a Platischis ed a Drenchia, territorio pure montano, ma verso l’Isonzo, ove agiva la 2a armata, che si saldava alla Zona Carnia nella zona di Plezzo – scrive Del Bianco –, la popolazione aiutò, naturalmente come era possibile, i soldati, e le donne caricate le gerle di proiettili e di vivande seguirono le prime truppe avanzanti sui greppi che segnavano il confine recando loro quanto poteva necessitare in quei momenti in cui, per la mancanza di strade e di sentieri, i servizi di sussistenza non avrebbero potuto altrimenti funzionare» (pp. 13-14).

Il merito di aver richiamato l’attenzione su questa vicenda è di Antonio Qualizza che, con un’intervista a una portatrice ( Le portatrici, Dom 16/1987, p. 3; Beneške vojaške nosilke, Trinkov koledar 1998, pp. 103109), ha tolto dall’oblio quel gruppo di giovani donne di Stregna che, gerla in spalla, assicuravano la sopravvivenza dei soldati nelle trincee. Dal racconto di Antonia Qualizza, classe 1898, veniamo a sapere che in un primo tempo percorrevano il sentiero da Podresca, in Val Judrio, a Kambreško, sul dorso del Kanalski Kolovrat, poi salivano da Clodig, in Val Cosizza, a Bajtarca e Lenartaj, sul Kolovrat (?). Il reclutamento delle portatrici avvenne su ordine del comando militare che obbligava tutti i giovani a sostenere i soldati in trincea. A coordinare il loro lavoro era tale Zanut Tenderinu. Dalla testimonianza di Antonia emerge che le donne portavano per lo più i viveri mentre agli uomini, ritengo anziani e ragazzini, erano affidate le munizioni. «Ci alzavamo prima dell’alba e partivamo a piedi – racconta –. Tornavamo sul tardi. La mattina seguente riprendevamo il cammino per Combresca… Volevamo essere utili ai nostri soldati; li volevamo aiutare». Pericoli? «Ah, se ne correvamo! Ma eravamo ormai abituate. Sopra le nostre teste e attorno ai noi piovevano pallottole e granate; tuttavia siamo andate sempre avanti».

Certamente le portatrici provenivano anche da altri paesi. Giuseppina Qualizza era di San Leonardo e si trovò a prestare la sua opera quasi per caso dovendo sfamare i suoi due figli, Luigi ed Elisabetta. Nata nel 1878, si sposò con Francesco Mattiuzzi e si trasferì a Udine. Prima della guerra la famiglia si trasferì a Borovlje/Ferlach in Carinzia dove Francesco trovò lavoro in una fabbrica di fucili da caccia. Dopo l’inizio delle ostilità tra Austria e Italia, mamma e figli vennero rimpatriati, mentre il padre rimase prigioniero in quanto operaio specializzato. Per sbarcare il lunario Giuseppina fece la portatrice fino al 23 ottobre 1917, quando decise di riparare con i figli sull’Appennino parmense ( Storie di donne. Aspetti della condizione femminile nella Prima Guerra Mondiale. SISIS B. Stringher, Udine 2016, p. 72). (Giorgio Banchig)

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