La funzione della vicinia tra Slavia e Friuli

 
 
È assodato che la Valle e le Convalli del Natisone, godessero di autonomie amministrative e giudiziarie attraverso le Banche di Merso e di Antro. Ma non sempre il nome di Banca rientrava nelle competenze conformi e specificate delle gastaldie, ma bensì veniva usato per indicare la Vicinanza ossia la Vicinia dei capifamiglia o capofuochi.
Nei Comuni di Gagliano, Premariacco, Firmano, Ipplis e Craoreto, con i Comuni di Corno, Noax e Gramogliano, la Vicinanza era detta Banca, e vi era anche il Comune della Villa del Monte di Rosazzo. Invece i paesi dislocati lungo la Valle del Judrio erano giuridicamente annessi alla Contrata o Banca d’Antro. In Prepotto, sede plebanale della Valle del Judrio, avveniva la riunione dei decani delle Ville sottoposte sub nuce in cortivo presbiterialis ad mensam lapideam. Anche in Nimis, sede plebanale, si riunivano i decani delle ville sottoposte alla Plebs, sub Loggia.
L’Istituto della Vicinia fu sempre considerato un esercizio di democrazia diretta, di antichissima tradizione. Del resto, per quanto possa essere stata controversa e complessa la giurisprudenza del Friuli, non pertanto l’ordine costituito del governo era il più adatto ai bisogni del tempo e forse il solo possibile; e fece sì che il Friuli presentasse un aspetto di nazionalità più distinta e avesse un corso più regolare di politica esistenza, giacché non soggiacque ad alcuno dei tanti mutamenti nell’ordine pubblico e civile altrove avvenuti.
Le nostre comunità erano rurali ma anche montane. L’origine di questi comuni è molto lontana; risale cioè ad epoca preromana e si può far derivare dai pagi e dai vici, che avevano organizzazione propria e capi propri. Non avevano solo interessi, ma anche terre in comune o comunia: pascoli o boschi che erano lasciati al libero uso degli abitanti. I Romani consolidarono questa organizzazione rurale. Nell’alto Medioevo, poi, vi si sovrappose l’organizzazione ecclesiastica e il pagus divenne pieve, il vicus sua filiale.
Ma è nei secoli XI e XII che si ha il vero comune rurale con una certa autonomia giuridico-economica, riflesso delle autonomie urbane, che però assumevano anche un carattere politico. L’autonomia era costituita dal diritto dei vicini di decidere liberamente in assemblea su ciò che era d’interesse comune e dal diritto di eleggersi i capi civili e spesso anche quelli religiosi. Il comune rurale, tuttavia resta alle dipendenze o di una città o di un signore feudale e spesso della gastaldia patriarcale (A. Solmi, Il comune rurale, in «Enciclopedia Italiana», XI, 1931).
A capo del comune era un decano (deàn, meriga, župan), che veniva eletto annualmente. L’assemblea deliberante era la vicinia formata dai capifamiglia. Questi si radunavano sotto un albero (noce o tiglio), in caso di pioggia o di freddo in chiesa, o sotto l’orditor (il portico), o nella Loggia dove c’era. Un precone (banditore) avvertiva i capifamiglia uno ad uno; l’ora veniva indicata con il suono della campana.
Presiedeva il decano, assistito dai sindaci e dai giurati, dal cameraro delle chiese e dai consiglieri. Le delibere venivano prese a maggioranza di voti e un notaio stendeva il verbale. Mancando il notaio, il precone punteggiava con il coltello un bastone (la mazza) secondo il numero e la qualità dei voti e poi si presentava con il bastone al notaio perché mettesse in iscritto il risultato delle votazioni. Le delibere venivano poi pubblicate in giorno festivo sulla piazza della chiesa, quando la gente usciva dall’edificio chiesiastico al termine delle funzioni (A. Tagliaferri, Contadinanza, ville rurali e vicinie di fronte al Parlamento della patria, in «Ce fastu?», LXIV, 1988, pp. 26-27).
1. continua

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