La coscienza «nazionale» degli amministratori della Slavia

 
 
Le celebrazioni per il 150° della proclamazione del Regno d’Italia, avvenuta a Torino il 17 marzo 1861, rischiano di diventare un atto dovuto e privo di significato, di cadere nella retorica patriottarda o nell’acuirsi delle contrapposizioni tra i sostenitori del federalismo, o addirittura della secessione, da una parte, e i rigorosi fautori dello Stato uno e indivisibile come uscito dal processo di unificazione risorgimentale.
In questi giorni si sta sviluppando un sentito dibattito sullo scarso sentimento di appartenenza dei cittadini allo Stato e la labile solidarietà tra le componenti geografiche, ma anche sociali e culturali, degli italiani. È evidente che la constatazione di Massimo d’Azeglio: «Pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl’italiani», ha una attualità sconcertante soprattutto se si legge questa frase nel contesto delle riflessioni contenute ne «I miei ricordi».
D’Azeglio non si augurava di «fare» gli italiani togliendo loro la cultura originaria frutto di eredità storiche, culturali e linguistiche delle diverse formazioni statali alle quali appartenevano — si pensi alla differenza tra siciliani e lombardi, tra piemontesi e sardi, tra veneti, friulani e campani per non parlare degli sloveni del Friuli e delle varie comunità linguistiche —: per il politico e scrittore piemontese fare gli italiani significava che «grandi, piccoli e mezzani, ognuno della sua sfera» dovevano fare il proprio dovere. «Ma fare il proprio dovere, il più delle volte fastidioso, volgare, ignorato, ci vuole forza di volontà e persuasione che il dovere si deve adempiere non perché diverte o frutta, ma perché è dovere; e questa forza di volontà, questa persuasione, è quella preziosa dote che con un solo vocabolo si chiama carattere, onde, per dirla in una parola sola, il primo bisogno dell’Italia è che si formino italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’italiani».
Al bando, dunque, lo stravolgimento delle parole di d’Azeglio che vennero e vengono usate (e lo saranno anche nelle celebrazioni di questo centenario) per eliminare le differenze linguistiche, culturali, le tradizioni popolari, le diverse «civiltà» che si trovarono, volenti o nolenti, a far parte del Regno d’Italia. Per d’Azeglio essere italiani significava colivare le virtù civiche, vivere onestamente, compiere il proprio dovere. Questo era il vero «carattere» degli italiani.
Questa lunga premessa per chiarire che l’adesione, attraverso il plebiscito del 1866, degli sloveni delle valli del Natisone, del Torre e di Resia al Regno d’Italia non comportava e non poteva farlo (lo ha spiegato bene lo storico sloveno Jaromir Beran nel suo studio sul plebiscito del 1866, di cui su queste pagine negli scorsi mesi) la rinuncia alla propria identità, alla propria lingua e cultura. Con l’adesione all’Italia si esprimeva la volontà di far parte di un «contenitore» statale che si era dato una costituzione e leggi rispettose della persona umana e delle sue prerogative. Del resto buona parte degli esponenti del Risorgimento italiano avevano il massimo rispetto delle diverse lingue e culture e delle autonomie locali: si veda l’attenzione di Giuseppe Mazzini nei confronti dei popoli slavi e il timore di Carlo Cattaneo che l'accentramento statale potesse sacrificare l'autonomia dei Comuni in particolare nelle regioni e nelle zone più povere.
Che gli sloveni del Natisone non avessero nessuna intenzione di abbandonare la propria lingua e cultura in nome di una appartenenza statale è dimostrato da due petizioni, in cui chiedevano l’autonomia amministrativa e giudiziaria e il rispetto della propria identità slovena. Si tratta di due lettere, la prima risalente al 1850, la seconda al 1861 (l’anno dell’unità d’Italia!), indirizzate alle più alte autorità austriache, nelle quali gli amministratori delle valli del Natisone chiedevano alle autorità austriache un tribunale di primo grado, il mantenimento del distretto amministrativo di San Pietro degli Slavi nonché addetti ed impiegati con conoscenza della lingua slovena.
Il primo documento risale al 1850, ad appena due anni dal 1848, l’anno dell’insurrezione contro l’Austria e dell’assedio da parte degli sloveni del Natisone al monte San Martino su cui si erano asseragliate le truppe austriache in marcia verso Udine che era insorta. Nella missiva le «deputazioni» comunali del «distretto amministrativo XIV di San Pietro dei Slavi» scrivono al «governatore civile e militare e luogotenente del Regno Lombardo — Veneto» conte Radetzky a Verona un ricorso con due richieste: «I° Un giudizio di 1 Istanza colle attribuzioni che saranno fissate dal Piano Organico, con residenza nell’attuale Capoluogo del Distretto. II° Impiegati ed addetti al med.(esimo) che conoscano, parlino e scrivano correttamente, oltre l’Italiano, anche lo slavo che si parla esclusivamente nel Distretto». Motivano la loro richiesta richiamandosi alle antiche giurisdizioni in vigore «già dai tempi del Medio Evo, ossia già assai prima della dedizione della Patria del Friuli alla Repubblica Veneta (1420)» delle Banche di Antro e di Merso «tribunali civili, criminali e criminalissimi col mero e misto impero… composti da N° 12 probi giurati e di un Cancelliero per ciascheduno; i quai Tribunali prendevano cognizione reciprocamente e giudicavano in seconda Istanza, di modo che la Banca d’Antro era di seconda Istanza di quella di Merso e viceversa, e solo in terza istanza o in appellazione, come dicevasi allora, ricorrevasi o direttamente al Senato Veneto o dal suo Provveditore in Cividale».
— 1. continua —

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