La conoscenza di Dio secondo Gregorio Palamas

 
 
Non certo per campanilismo, ma buona parte dell’altissimo livello raggiunto dalla spiritualità cristiana, all’interno della Chiesa, è dovuto al polmone rivolto ad est, per dirla parafrasando una riuscita espressione di Giovanni Paolo II, cioè alla Chiesa d’Oriente. La mistica, per buona parte, è legata alla Chiesa d’Oriente, sia essa di ambito greco o slavo. «Va’, rimani nella tua cella e la tua cella ti insegnerà qualcosa»: basterebbe questa frase del mistico d’Oriente Gregorio Palamas (1296-1359) per esemplificare quanto detto. Dentro di sé e fuori dal mondo, ma non nel senso negativo che comunemente a quaesta frase si dà; fuori dal mondo che non si capisce e che non vuole essere capito, fuori dal mondo che è solo orrore ed errore, fuori dal mondo che non è teso al benessere ma al potere.
Questo è il senso della frase del monaco del monte Athos Gregorio Palamas, artefice della diatriba riguardo alla spiritualità monastica che animò la Bisanzio del XIV secolo. Secondo Gregorio Palamas e diversamente da altri (ad es. il monaco calabrese di origine greca Barlaam), Dio è immediatamente conoscibile in Cristo attraverso il battesimo e attraverso quella prosecuzione e quella continuazione del battesimo che è l’eucarestia.
Arrivato a venti anni nel Monte Athos — prima nel monastero di Vatopedi, poi in quello della Lavra, poi nell’eremitaggio di Glossia — il giovane Gregorio si imbatte subito in quella che era considerata l’unica esigenza di vita dagli stessi monaci: la preghiera ininterrotta.
La conoscenza di Dio esige anche l’uso della preghiera, la cui sublimazione è quella dell’esicasmo dei monaci anacoreti, quella spiritualità cioè basata sulla pace interiore e sul silenzio; quella descritta e codificata dal manoscritto Metodo della santa preghiera e dell’attenzione, di autore anonimo ma da alcune fonti attribuito al monaco orientale Simeone il nuovo Teologo o a un altro monaco, Gregorio Sinaita (1255-1346) ed a cui fa esplicito riferimento anche Gregorio Palamas.
Simeone il nuovo Teologo scriveva a tale proposito: «Invocato per mezzo della preghiera del cuore, Cristo invia nel cuore una forza spirituale chiamata pace di Cristo, che l’intelligenza non può comprendere, che la parola non può esprimere, che può essere raggiunta in modo perfettamente comprensibile solo attraverso una forte esperienza». Secondo questo metodo, era necessario che la mente si fondesse con il cuore, talora trattenendo anche il respiro per evitare anche la più piccola possibilità di distrazione; intanto si recitava — al pari di un mantra — la formula «Signore Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me».
«Siediti», era il primo consiglio che il monaco anziano dava al giovane che si affacciava a questo tipo di spiritualità: non diceva «prega», ma «siediti». È quindi necessario restare immobili, per concentrare se stessi in Dio. È la prima fase: quella della cosiddetta ‘preghiera della montagna’. Trovato l’equilibrio con il proprio corpo, si passava alla seconda fase, quella della ‘preghiera del papavero’: «Se osservi bene il papavero, esso ti rivelerà non solo la dirittura dello stelo, ma anche la flessibilità sotto l’azione del vento». Dunque, con la montagna si acquisisce il senso della eternità, con il papavero quello della fragilità. La terza fase è quella che insegna a meditare come l’oceano: stando in riva al mare, si arriva a sincronizzare il proprio respiro con il fluire e il refluire delle onde. Meditare — il primo passo della preghiera — è allora imparare a respirare e ad uniformarsi all’oceano. Pur se mosso in superficie da onde leggere, in profondità l’oceano resta immobile.
«I pensieri — troviamo scritto — vanno e vengono come la schiuma, ma il fondo dell’essere deve restare immobile». L’ultima fase è quella dell’uccello: «Meditare — e quindi pregare — è respirare cantando», come appunto fanno gli uccelli. Ritiro dal mondo — pur facendone parte! —, attenzione al respiro, reiterazione della preghiera — anche con formule semplici ma efficaci: Kyrie eleison —, apertura del cuore: sono questi i passi che portano alla preghiera e che non solo il monaco esicasta dovrebbe compiere. Dice Gregorio Palamas: «Pregare incessantemente, invocare il nome di colui che è la nostra salvezza e la nostra luce, diventare partecipi della sua natura divina: questo, in breve, è il fine della preghiera del cuore».
È dal cuore che deriva la vita ed è nel cuore che si trova Dio per il monaco esicasta. Avere attenzione per il proprio cuore, dal punto di vista cristiano e della mistica cristiana d’Oriente, vuol dire coltivare tutte quelle cose che potranno portare a quel dialogo ininterrotto con Dio, tramite il quale la distanza da Dio sarà minore. Nel 1782 venne pubblicata a Venezia la Filocalia, quintessenza della mistica esicasta che riuscì a dare nuovamente vigore alla pratica della preghiera. Lo studio della Filocalia e indirettamente di tutti gli esicasti — Gregorio Palamas compreso — che ne gettarono le basi attraverso i secoli, venne diffuso in tutto il mondo slavo: Paisii Veliovskij, Serafino di Sarov e Giovanni di Kronstadt seppero diffondere, anche se a distanza di secoli, l’eredità di alcuni tra i maggiori mistici della Chiesa d’Oriente.
«Tu che sei una guida per la cristianità, un maestro di pietà e modestia, una luce per il mondo, l’orgoglio monastico ispirato da Dio, o sapiente Gregorio, tutti hai illuminato con la tua saggezza. Tu sei l’arpa dello spirito. Intercedi per la salvezza delle nostre anime presso Cristo nostro Dio», canta l’Apolytikion a conclusione della festa del santo, il 10 di Marzo.

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