Igor Jelen: ci basta la semplice gioia_di tornare a vivere

Tromeja nad Belo Pečjo.

È difficile scrivere sulla pandemia da Covid-19 per gli specialisti, figurarsi per un profano; e questo ancor più in un periodo di emergenza, quando è impossibile avere un quadro preciso della realtà, ma è nondimeno necessario prendere decisioni che possono avere impatti molto gravi: ancor più difficile se si pensa che, chi deve decidere, deve saper astrarsi all’occorrenza da un approccio umanista (che rifugge da una pratica di fredda contabilità delle vittime, che invece assume qualsiasi vita come un valore incommensurabile). Difficile da accettare, ma è così.

Nondimeno il carattere eccezionale della materia, e gli impatti che sembra produrre a qualsiasi scala – sul territorio e nella società, al centro e in periferia –, lasciano intravvedere evoluzioni geopolitiche, e inducono la necessità di certe considerazioni anche in questa materia.

Questo in particolare per noi, che viviamo in una terra di confine, spesso al centro di tensioni tra sistemi, dove qualsiasi crisi può avere impatti – come la storia insegna – irreversibili: confini sbarrati, identità negate, «lingue tagliate», famiglie divise, proprietà espropriate, espulsioni e migrazioni, sofferenze per intere generazioni.

Noi, qui, sul confine centro-europeo, non possiamo che essere particolarmente sensibili ad alcune simbologie e ad alcune questioni: ciò che da altre parti non produce impatti particolari, da noi assume immediatamente un altro colore e un altro significato. Allora, allargare la zoomata può introdurre ad certe riflessioni; in realtà, questa della pandemia, è solo una delle tante tensioni che producono sconvolgimenti che caratterizzano la storia recente, e che sembrano colpire a intervalli regolari la vita sociale e politica – in Europa come altrove nel mondo. Gli studiosi parlano di rischio strategico, ovvero di tensioni imprevedibili e incontrollabili che possono provocare in modo improvviso e «simmetrico» la crisi di interi sistemi.

Crisi che, come si può dire oggi (ma restiamo in attesa di conferme) colpiscono la comunità umana con una cadenza regolare (curiosamente ogni 5 anni circa), ma che la democrazia, e in realtà tutto l’Occidente, e tutto il mondo della «società aperta», hanno saputo riconoscere, affrontare e sostenere: all’apparenza sistemi fragili, e indeboliti da un effetto di «imborghesimento», che la letteratura anglosassone definisce di «over complacency», e che sembra colpire le popolazioni delle democrazie «mature», ma che, nel momento della necessità, hanno saputo reagire. Al contrario, nello stesso tempo, i sistemi basati sull’odio, sullo sfruttamento, e sulla paura utilizzata come strumento di governo, vanno in crisi; così profittatori e speculatori, che fanno i soldi mentre interi strati sociali si impoveriscono, così intere elite cheperseguono rendite da posizione (le «poltrone») che si dissolvono, e così anche partiti politici che diventano «nomenclature» (al di la di ingenue e improvvide dichiarazioni sul potere che logora «chi non ce l’ha»).

Così, mentre molti criticano le istituzioni, sia nazionali e internazionali, della «debole» democrazia, ovvero la politica «silenziosa» del dialogo e della cooperazione, delle regole e del mercato aperto – sia delle merci che dei capitali –, proprio questo stesso meccanismo è l’elemento che oggi, in tempo di crisi, riesce a garantire la tenuta per tutto il sistema. Si può dire infatti che, senza l’azione mitigatrice dell’«unione» di ßtati europei, di un «fondo monetario» con sede da qualche parte in America, di una «organizzazione mondiale» di qualche cosa, in genere delle istituzioni sovra-nazionali, tali tensioni avrebbero dato origine, in tutta probabilità, a qualche guerra e a un «effetto domino» distruttivo, a qualche circolo vizioso della geopolitica (come dimostra la storia recente e meno recente dell’Europa, in particolare dell’Europa centrale). Quindi a chiusure reciproche, all’escalation di reazioni e controreazioni, rappresaglie e tensioni di varia natura (basti pensare allo stato di emergenza di Orban in Ungheria, alle reciproche chiusure di confini, alle «rapine» di carichi di mascherine tra Paesi alleati), che fortunatamente sono rimasti casi isolati. Oggi questo non può succedere, o almeno non può succedere in tale misura da distorcere tutto il sistema: le lobby locali e localistiche, e la loro tendenza alla chiusura, e la tipica ideologia neo-provincialistica o proto-feudale di cui sono portatori, non possono prevalere.

Nessuno degli aspetti consueti di una tale crisisembra essere oggi visibile. I supermercati appaiono sempre ben riforniti, con file ordinate di persone che sanno mantenere il«distanziamento sociale»; gli ospedali, seppuresotto pressione, e in genere l’apparato sanitario

sembrano funzionare in modo accettabile, non «lasciando indietro nessuno»; le autorità forniscono dati attendibili, o almeno con regolarità; le frontiere restano aperte – almeno per le merci essenziali –, e la mobilità di farmaci, derrate, tecnologie funziona, dimostrando capacità di approvvigionamento praticamente illimitate. E poi – per nulla scontato in tali situazioni – niente corsa alle banche e ai conti correnti grazie ai «bazooka» (definizione discutibile, in realtà) di cui dispone la «banca europea», niente saccheggi e niente assalti «ai forni» (anzi in certi settori la crisi sembra paradossalmente significare la diminuzione di certi fattori di rischio, di criminalità, di incidentalità e di altri situazioni che caratterizzano usualmente i tempi «normali»); e poi aiuti sostanziali per individui e imprese (o almeno aiuti ad una scala mai vista in tali situazioni, anche considerando la stabilità di una valuta, seppure in condizioni di debito pubblico molto elevato).

La voglia di sopravvivere e di vivere prevale anche a livello di sistema: ci rendiamo conto tutti che la vita è meravigliosa – è fatta di affetti, emozioni, paesaggi naturali, opere d’arte, bellezza in tutte le sue manifestazioni, e anche di stabilità –, e che «domani è un altro giorno».

È sempre così in realtà per le società aperte, che sanno superare certi momenti, che recuperano in fretta, perché semplicemente si basano sulla naturale volontà di vivere della gente, sulle aspettative e sulla consapevolezza di individui e gruppi (ciò che l’«uomo forte» al comando non potrà mai).

È il caso anche dell’attuale crisi – speriamo in fase di regressione –, che in realtà sembra essere proprio la crisi «perfetta», quella che ci colpisce in ciò che amiamo di più, la socialità e la voglia di stare insieme: gli strumenti dell’elettronica, accessibili a tutti, possono aiutarci a mantenere un minimo vitale, anche se filtrano nella comunicazione ciò che abbiamo di più caro, e che deriva da una sensazione irriproducibile di contiguità umana. Una crisi che separa nonni dai nipoti, che impedisce ai bambini di frequentare un parco giochi, ai giovani di immaginare la loro vita, che divide il futuro dal presente, che condanna alla solitudine: in realtà solo una delle periodiche crisi sistemiche, ma forse la più insidiosa, perché ci lascia dubitare dei nostri vicini, dei nostri amici, che si insinua nelle case e nelle famiglie, che rinchiude tutto e tutti in quarantena. Una crisi che impatta quindi la dimensione individuale e più intima, che la geopolitica, che ha una memoria «corta», questa volta non può ignorare; questo al di là di certi esperti o di certe «cassandre», che ovviamente non riescono a far sentire la propria voce nel marasma mediatico (in cui prevalgono le urla sgrammaticate, per così dire «alla Sgarbi »).

Nessuno vuole coltivare odio, e nessuno vuole continuare a vivere nell’incubo, a ciò che si associa a dolore, malattia, sofferenza, o anche la morte, per sé e per i propri cari; tutti hanno interesse a che prevalgano fantasia e iniziativa, fiducia e immaginazione, la semplice gioia di ricominciare a vivere che, restando in tema, ci rappresenta una rinnovata idea della Pasqua.

Igor Jelen, docente di Geografia politica ed economica all’Università di Trieste

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