I «deputati» di S. Pietro chiedono un distretto «slavo»

 
 
Le due petizioni degli amministratori delle Valli del Natisone, oggetto di questa ricerca, sgomberano il campo da due frequenti equivoci: il primo propagandato dal nazionalismo, e non solo locale, che confonde l’adesione plebiscitaria al Regno d’Italia da parte degli sloveni della Benecia come una chiara volontà di rinunciare alla propria identità e alla propria lingua; il secondo, collegato al primo, arriva dal mondo culturale e politico sloveno, al di qua e al di là del confine, che non si spiega le motivazioni per cui gli sloveni del Friuli abbiano con convinzione appoggiato il movimento risorgimentale e l’annessione all’Italia, dalla quale sono stati poi ricambiati con un massiccia politica assimilatrice.
I due documenti in questione fugano ogni dubbio in proposito. Gli amministratori dell’allora distretto di San Pietro degli Slavi avevano conservato ben chiara la memoria dell’autonomia amministrativa e giudiziaria nonché dei privilegi goduti sotto la Repubblica di Venezia, abrogati dal nuovo ordinamento statale napoleonico il quale fu mantenuto, nonostante la restaurazione dell’Ancien régime sancita dalle potenze europee al Congresso di Vienna (1814-1815), dalle autorità austriache del Lombardo-Veneto. Per questo motivo, ma anche per la forzata vendita ai privati dei beni comuni amministrati dalle vicinie, la popolazione e i suoi amministratori assunsero un atteggiamento di ostilità nei confronti del dominio «straniero» ed iniziarono a guardare all’Italia, che si stava formando e si presentava in una veste libertaria e con idee federaliste sostenute dai padri della Patria da Carlo Cattaneo e dai sacerdoti Antonio Rosmini e Vincenzio Gioberti (ma anche dallo stesso Camillo Cavour), come ad una novella Venezia che avrebbe restituito loro l’antica autonomia e il diritto di amministrare la cosa pubblica e la giustizia nella propria lingua.
Sono queste, infatti, le richieste contenute nelle due missive, la prima indirizzata a Radetzky nel 1850, ad un non meglio precisato ministero di Vienna, il 1° marzo 1861, vale a dire due buone settimane prima della proclamazione del Regno d’Italia festeggiata anche nella Slavia con l’accensione dei falò.
L’atteggiamento a favore dell’Italia, pertanto, non può essere equivocato né strumentalizzato tanto meno interpretato come rinuncia alla propria cultura: gli amministratori della Slavia erano coscienti della propria identità slovena, erano intenzionati a conservarla anche usando la propria lingua sia nel tribunale di primo grado, di cui rivendicavano il ripristino, che nella gestione amministrativa.
Allarmati dalle voci sull’abolizione del distretto di San Pietro degli Slavi e la sua aggregazione a quello di Cividale, gli amministratori del capoluogo delle Valli del Natisone si rivolgono direttamente a Vienna e chiedono che a tanta umiliazione non si arrivi.
A sostegno della loro richiesta scrivono che «la popolazione del Distretto, di 15 mila anime circa, è in continuo sensibile incremento. La loro lingua è sempre ed unicamente la slavo-cragnolina. Il Censo ha l’imponente numero di 9842 Ditte con un infinito numero mappale stante la giornaliera divisione e suddivisione della proprietà e le piccole possidenze aumentatesi grandemente per l’allivellamento e divisione dei fondi comunali in seguito alla benefica Sovrana Patente del 1839».
I «deputati» sampietrini ricordano, inoltre, che gli otto comuni sono «provvisti di rispettivo patrimonio e rendite, quindi di amministrazione e tutela politica»; ricordano, ancora, che le chiese sono 50 (!) con relative fabbricerie e che il distretto è «transitato nel proprio capoluogo e nell’intiero suo diametro da strada regia che dal Friuli e così dall’Italia» porta «nell’Illiria e nella Stiria».
Il distretto, precisano gli amministratori, «è posto appunto sul confine Illirico, con cui ha continue e rilevanti contrattazioni e affari, come pure questioni e contestazioni e spessi fatti di contese e risse. Gli abitanti trafficano a migliaia in varie parti dell’Impero».
Dopo aver svolto queste argomentazioni a difesa del loro distretto gli scriventi arrivano al nocciolo della questione. «È notorio — scrivono — che il Distretto di Cividale sia soppracaricato di affari proprj e viemaggiormente per l’annessione a Lui del distretto di Faedis. L’aggregazione di quello di S. Pietro ancora porterebbe tale aumento e pressione che necessiterebbe di farne nuovamente la separazione, e di accrescere di quasi il doppio il numero degli’Impiegati. Inoltre di dover adottare il cattivissimo sistema degl’Interpreti, stante che a Cividale non si parla lo slavo. Quindi gli stessi Impiegati d’ora, più gl’Interpreti, la stessa spesa, nessuna economia, peggiore servizio pubblico e lamenti».
E i «deputati» di San Pietro con una logica stringente e orizzonti imprevedibili per quei tempi si spingono ben oltre la richiesta di mantenere il proprio distretto. «Ma se è di fatto che il Distretto di Cividale è così aggravato, in luogo di sconsigliatamente pregiudizievolmente proporre di unirgli anche quello di S. Pietro, perché invece, con equa ed opportuna giustizia distributiva non proporre di staccare da lui i paesi slavi montuosi che ne fanno parte e aggregarli a S. Pietro, cui sono più aderenti, affini di costumi, interessi e lingua con indubbio migliore andamento amministrativo, e formare così un Distretto slavo di circa 20-24 milla anime, contenendone attualmente Cividale 45-50 milla ca».
Con lungimiranza e anticipando di 150 anni un’esigenza sorta nel quadro del dibattito sulla riforma degli enti montani, gli amministratori di San Pietro proponevano la costituzione di un distretto amministrativo che comprendesse esclusivamente il territorio abitato da sloveni (la lingua slavo-cragnolina, citata nel documento, designava senza ombra di dubbio la lingua slovena, parlata nella Carniola (Kranjska, Slovenia centrale) con la quale la Slavia confinava.
O tempora! O mores!

— 4. fine —

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