Era il 2 maggio dell’anno 1804 quando sotto i tigli davanti alla chiesa di S. Quirino in S. Pietro degli Slavi fu celebrato l’ultimo Arengo, simbolo dell’autonomia della Schiavonia. Dopo alterne vicende, 62 anni dopo, un plebiscito da burla la consegnò al neonato Regno d’Italia. «Questi Slavi bisogna eliminarli », fu scritto e ce n’erano oltre 35.000 nell’attuale provincia udinese. Non a fucilate, s’intende, ma «con la lingua e la cultura di una civiltà prevalente… Useremo speciali premure…!».
Non pare il caso di riproporre i fatti ed i misfatti delle «speciali premure» che, prima il Regno e poi la Repubblica d’Italia, hanno profuso per gli Slavi in Italia, tra massoneria, fascismo, peccati di aggressione ed omissione da parte dei vari poteri politici che hanno esercitato quelle «premure».
È stato mons. Pasquale Gujon, dall’alto del Matajur, ad evidenziare tra i primi una delle conseguenze più nefaste delle «premure per attirarli (gli Slavi) a questa civiltà italiana che deve brillare ai confini tra quelli stessi che sono piuttosto ospiti nostri». Fu lui a teorizzare quel fenomeno psichico che conosciamo come sindrome di Stoccolma, definito meglio come «identificazione coll’aggressore». Gli effetti devastanti di questa sindrome si vedevano e si vedono come atto estremo dei meccanismi di difesa, nella mimesi, nel camuffamento, fino al rifiuto della propria identità etnolinguistica.
Non sarebbe il caso di insistere su cose ormai ripetute da mezzo secolo, ma sono purtroppo i dati demografici che mostrano l’inesorabile sfacelo cui sono state costrette le comunità slovene. Le speranze riposte nei possibili effetti della tutela etnolinguistica, nella caduta del maledetto confine, magari anche di quelle di un Giro d’Italia, stanno dimostrando la loro fragilità non tanto per le effettive resistenze ancora in seno alle comunità valligiane, ma per la consistenza numerica, fisica, delle sue forze e delle risorse umane. Senza voler retrocedere a tempi storici, basti rapportarci al 1951, quando nei sette comuni delle Valli del Natisone il censimento contò 16.195 abitanti e nei comuni di Lusevera, Taipana e Resia altri 7.985 per un totale di 24.180 residenti. Oggi i dati resi noti in occasione delle elezioni europee sono rispettivamente 4.968 e 2.085; in tutto 7.053. È tutto detto.
I numeri parrebbero poca cosa ma rappresentano una perdita insanabile di energie vitali per una comunità dispersa su ben 945 kmq. Poi, quanti dei rimasti abbiano mantenuto un minimo di identità etnolinguistica cosciente ed attiva non è dato di sapere.
Sulle ragioni dell’ecatombe si potrebbe ragionare a lungo, soprattutto sui peccati mortali delle volute omissioni dei vari gradi del potere politico ed economico. Che forza di difesa può avere un piccolo popolo quando al suo interno la stragrande maggioranza si identifica coll’avversario maggioritario al punto di diventare nemico di se stesso? È stata solo la qualità della fuga migratoria il fattore determinante dello sfacelo demografico. Infatti almeno da tre quarti di secolo le culle non rimpiazzano, neppure per un terzo, le bare, in un mondo dove a crescere sono i cimiteri e i boschi.
La fuga, o anche foga migratoria, prima che quella dei maschi, ha coinvolto le giovani donne e continua anche nei tempi recenti, quando perfino la scolarità ai più alti livelli privilegiava le donne rispetto ai maschi ed il pendolarismo verso la pianura si cristallizzava nel definitivo abbandono. Svuotato di senso e prospettive il «qui», solo nell’«altrove» si cristallizzava una nuova identità magari vuota e dispersiva, posticcia e alienante. Fuggiti i giovani, morti i vecchi, il territorio si è reso inservibile per un qualsiasi sfruttamento economico degno di rilievo.
Ben vengano l’agognato turismo, la forestoterapia, il richiamo della peculiare cultura, lo sfruttamento delle biomasse, la ricerca del benessere fisico, i Burnjaki e gli Inviti a pranzo… gli inviti estesi all’orbeterraqueo perché appassionati si degnino di venire a lavorare e vivere in questo mondo esteticamente e naturalisticamente favoloso. Lo spazio non manca e non mancherebbero, almeno in teoria, neppure gli alloggi negli oltre duecento paesi e paesini sparsi su quei 945 kmq per una densità abitativa di neppure 6-8 residenti per kmq.
Quali possono essere le prospettive di sviluppo sociale ed economico per la gente rimasta nei paesi montani semivuoti, prevalentemente anziana coi servizi ridotti al lumicino? Difficile ipotizzare un «Richiamo della foresta » – perché ormai di foresta si tratta – da parte dei fuorusciti e dei loro figli e nipoti inurbati, anche se forse possessori ignari di porzioni di fabbricati e di particelle improduttive di territorio nella Slavia degli antenati. A guardare la realtà senza slanci profetici, anche se oggettivamente si avverasse l’ipotetico ritorno di nuovi «geneticamente oriundi» e potesse prender forma in qualche modo l’auspicato sviluppo economico e sociale, quali le prospettive identitarie di una comunità cosciente ed orgogliosa della propria identità linguistica e culturale?
Ha qualche senso mantenere in vita sette, dieci Comuni per una popolazione di 7 mila (registrati) «residenti », ma in realtà in cospicuo numero domiciliati altrove? Che programmazione seria è possibile se le comunità locali si mostrano così divise ormai per tradizione? Non sarebbe il caso di trovare un sistema, una volontà politica capace di rendere economicamente gestibile questo territorio, il quale da giardino fatto di campi, di prati, di boschi, di paesini sui poggi, di chiesette e campanili, oggi si veste, si copre di foresta e abbandono?
Riccardo Ruttar