Il “volto santo” della grotta di Antro

Sindone e Veronica non spiegano il mistero del “volto santo” della grotta di Antro

3 sindoneantro1«Svelato il mistero della Veronica»: sotto questo titolo il settimanale diocesano «la Vita
Cattolica», nell’edizione di sabato 13 aprile 2002, pubblicò una breve cronaca nella quale facevo
il resoconto di un’interessante conferenza organizzata dall’Associazione studi storici di Cividale
e tenuta il 2 aprile nella sala parrocchiale di Antro. Ad intervenire furono la storica dell’arte
Michela Gus e il noto medico sindonologo Sebastiano Rodante. Oggetto degli interventi fu quel
piccolo affresco (ca. 37×35 cm) del volto di Cristo presente sulla parete rocciosa sinistra all’ingresso
della chiesa-grotta. Definito «Veronica» in quanto presenta i tratti essenziali dell’immagine
che Cristo lasciò impressa sul lino con cui una donna, chiamata Veronica, gli asciugò il volto
lungo la Via dolorosa, il dipinto rappresentava fino ad allora uno degli enigmi più affascinanti
presenti nel complesso monumentale di San Giovanni d’Antro. Michela Gus, attraverso una serie
di comparazioni tra affreschi del XVI secolo, sostenne che il dipinto è opera di Jernej-Bartolomeo
di Škofja Loka (o della sua scuola), un fecondo pittore attivo nei primi decenni del ‘500 in vari
centri delle valli dell’Isono e del Natisone. Secondo la Gus lo stile e la gamma cromatica della
«Veronica» sono simili a quelli che si riscontrano negli affreschi, attribuiti al pittore sloveno, presenti
nella chiesa di San Brizio a Volarje (Kobarid-Caporetto), nelle vele laterali della volta del
presbiterio e sull’arco trionfale della chiesa di Santa Lucia di Cravero (San Leonardo).
Com’è noto OEkofja Loka era a quell’epoca un vivace centro culturale ed artistico dal quale, attraverso
gli artisti formatisi nelle botteghe dei mastri architetti, pittori e scultori, si diffuse nella
Gorenjska e in altre aree slovene lo stile tardo gotico (o gotico internazionale o fiorito) che, dopo
aver percorso un lungo cammino arrivò nell’Europa centrale (cattedrale di San Vito a Praga), da
dove approdò in Slovenia (Kranj, Škofja Loka…) e da lì fu esportato anche nei domini della
Serenissima abitata dagli «schiavoni», cioè nelle Valli del Natisone e del Judrio fino a lambire la
pianura friulana, dove s’incontrò con il tardo gotico veneziano. Con gli architetti lavorarono
anche scultori e pittori come il nostro Jernej del quale lo storico dell’arte Emilijan Cevc scrisse:
Il piccolo affresco rappresenta un unicum nelle riproduzioni della Sindone eseguite a partire dalla fine del ‘400. «Bartolomeo non è un pittore di qualità eccezionale, ma un solido maestro artigiano che disseminò i suoi affreschi non solo nei dintorni di Škofja Loka, ma per tutta la Gorenjska fino a Bohinj
e fu certamente uno dei pittori più operosi nella Gorenjska e nella Valle dell’Isonzo negli anni
Venti e nei primi anni Trenta [del XVI secolo, ndr]. La sua espressione stilistica è essenzialmente
tardo gotica, la sua tavolozza limitata a tre o quattro colori caratteristici (ocra, bruno rossastro,
verde); caratteristico è il suo modo di modellare i volti con un rossore triangolare sulle guance;
le sue figure sono snelle e il suo stile narrativo molto popolare» (E. Cevc, L’apporto di Andrea
da Loka nell’architettura gotica slovena, in Sulle strade di Andrea da Loka – Na poteh Andreja
iz Loke, San Pietro al Natisone s.d., p. 82).
Nella conferenza tenuta ad Antro il sindonologo Sebastiano Rodante, di casa nel Cividalese dove
si era stabilita sua figlia avendo sposato un Paussa originario di Oborza, ha fatto un’altra rivelazione
importante: le tracce di sangue dipinte sulla «Veronica» della Grotta riproducono con sorprendente
fedeltà quelle presenti sulla Sindone conservata nel duomo di Torino. Secondo Rodante
il pittore che le eseguì vide il sacro lino in una delle ostensioni, che si sono ripetute tra la fine del
‘400 e gli inizi del ‘500 a Chambéry in Francia dove era custodito prima di essere trasferito a
Torino, oppure ha ricevuto da pellegrini e viandanti indicazioni molto dettagliate, o anche,
aggiungo io, ha potuto vedere una esatta riproduzione del volto della Sindone.
Il volto di Cristo di Antro, secondo Rodante, «rappresenta per importanza e sovrapponibilità un
nuovo tassello nel vasto mosaico sindonico ed un unicum nelle riproduzioni della Sindone» eseguite
a partire dalla fine del ‘400. In queste, infatti, le tracce di sangue sulla fronte del Crocefisso
sono dipinte in maniera approssimativa, nella «Veronica» di Antro si trova una coincidenza con
il lenzuolo di Torino che ha letteralmente sorpreso il sindonologo. Va ricordato che Sebastiano
Rodante si avvicinò giovanissimo agli studi sulla Sindone e all’inizio era scettico circa la possibilità
che essa realmente avesse avvolto il corpo di Cristo morto. Approfondendo gli studi lo scetticismo
si trasformò in curiosità, poi in interesse e in una vera passione che lo portarono a leggere
quasi tutte le opere pro e contro l’autenticità, diventando uno studioso cardine della ricerca
scientifica sul lenzuolo sindonico. Fu lui a teorizzare che l’impronta sulla Sindone sia frutto dello scoppio di un lampo di luce verificatosi al momento della resurrezione del Cristo.
Mistero svelato, dunque? Per lungo tempo le risposte di Michela Gus e di Sebastiano Rodante mi sono
parse esaurienti: la «Veronica» è stata eseguita agli inizi del secolo XVI da Jernej di Škofja Loka, che probabilmente aveva affrescato anche la cappella tardogotica di San Giovanni, e che nel raffigurare il volto di Cristo aveva riprodotto con scrupolo le macchie di sangue che appaiono sull’Uomo crocifisso
della Sindone. Ma ulteriori e attente osservazioni del dipinto, approfondimenti sulle riproduzioni
iconografiche della Sindone, della Veronica e del Volto santo «acherotipo», cioè non dipinto da mano umana, mi hanno portato a formulare altre ipotesi sull’origine di quel piccolo affresco Scalinata d’ingresso alla Grotta d’Antro attribuito a Jernej di Škofja Loka.

Sul “volto santo” furono eseguiti interventi pittorici in epoche diverse

Che il «Volto santo» di Antro non rappresenti solo le sembianze dell’Uomo della Sindone appare evidente anche da un esame superficiale delle immagini pubblicate sopra: il primo ha gli occhi bene
aperti con lo sguardo rivolto a destra, il secondo li ha chiusi in quanto raffigura una persona deceduta. E Jernej da Škofja Loka, cui è attribuito il piccolo affresco e che è stato così scrupoloso nel raffigurare
le macchie di sangue presenti sul volto della Sindone, non poteva cadere in un errore così evidente da stravolgere i tratti essenziali del modello al quale voleva ispirarsi. Quel volto può essere, allora, una riproduzione dell’immagine che, secondo la tradizione, Cristo lasciò impressa sul panno con il quale un donna, chiamata Veronica, asciugò il suo volto lungo la salita al Calvario? Se così fosse il pittore
avrebbe fuso in un’unica immagine due tradizioni iconografiche distanti tra di loro per origine e diverse per consistenza dei riferimenti storici su cui poggia l’attendibilità della loro autenticità.
Ricordo brevemente che la tradizione della Veronica si è diffusa nella Chiesa latina grazie alla
pia pratica della Via crucis che si celebra nei venerdì di quaresima. Alla VI stazione si ricorda il
fatto sopra ricordato dell’immagine impressa sul panno con il quale Veronica deterse il volto di
Gesù. I Vangeli canonici non menzionano né il fatto né il nome della donna. Il nome è invece
ricordato nel Vangelo di Nicodemo, un testo apocrifo databile, nella forma attuale, al 425, ma che
viene citato già nel II secolo dal padre della Chiesa S. Giustino, ma non è collegato all’episodio
della Via crucis. Il testo attuale contiene elementi più antichi come gli Atti di Pilato, che narrano
il processo di Gesù condotto dal procuratore romano. Ad un certo punto, vi si legge, a difesa dell’imputato una donna, di nome Veronica, si alzò e disse: «Io perdevo sangue; toccai il suo vestito
e la sorgente del mio sangue si arrestò». Evidentemente si tratta del miracolo della guarigione
dell’emorroissa, narrato nei Vangeli Sinottici. Manoscritti greci, latini, paleoslavi e copti attribuiscono
alla donna anche i nomi di Vacilla, Balilla, Basilissa e Berenice. Secondo molti autori
il significato del nome Veronica deriverebbe dal latino ‘vera’ e dal greco ‘eikon’ (= icona, immagine)
e sarebbe quindi collegato alle reali fattezze del volto di Gesù. L’episodio della Via crucis entrò nella tradizione cristiana molto più tardi rispetto ad altri episodi che collegano la Veronica al volto di Cristo. Già nel VII secolo nella Morte di Pilato, un apocrifo medievale, si narra di Veronica che, mentre stava portando a un pittore una tela su cui dipingere il volto del Salvatore, incontrò Gesù stesso che su quel panno impresse le sue sembianze. Quell’immagine, portata a Roma da Veronica, avrebbe guarito l’imperatore Tiberio dalla lebbra. Nel 1160 un canonico della Basilica di S. Pietro, in cui era custodita la sacra effigie, collegò quell’immagine all’episodio narrato dai Vangeli dell’agonia di Gesù nel Getsemani: «La Veronica è senza dubbio il sudario con cui Gesù, prima della passione, deterse il suo volto quando da esso caddero a terra sudore e sangue».
Solo nel XIV secolo apparve la tradizione della Veronica che asciuga il volto di Cristo durante la
salita al Golgotha. Da quel momento sulle riproduzioni della ‘vera-icona’ apparve anche la corona
di spine. Nel secolo seguente questa tradizione venne codificata e inserita tra le stazioni della
Via crucis. Una Veronica è conservata, almeno dal X secolo, nella cappella Matilde della basilica di San
Pietro e nella tradizione devozionale è considerata come quella autentica, ma c’è chi sostiene che
essa fu trafugata e oggi si conserva a Manoppello in provincia di Chieti.
Di tutt’altro spessore storico e scientifico sono le testimonianze sulla Sindone: un lenzuolo di lino
conservato nel duomo di Torino, sul quale è visibile l’immagine di un uomo che porta segni interpretati
come dovuti a maltrattamenti e torture compatibili con quelli descritti nei racconti evangelici
sulla passione e morte di Gesù. La tradizione identifica l’uomo con Gesù e il lenzuolo con
quello usato per avvolgere il suo corpo nel sepolcro.
Secondo alcune testimonianze la Sindone venne custodita dalla prima comunità cristiana e tenuta
nascosta a causa delle persecuzioni. In seguito fu portata a Costantinopoli da dove probabilmente
nel 1204 fu trafugata dai crociati che saccheggiarono la città. La prima notizia storica sulla
presenza della sindone a Lirey in Francia risale al 1353. Cento anni più tardi venne venduta ai
duchi di Savoia che la portarono a Chambéry, loro capitale. Nei decenni seguenti la Sindone
venne esposta più volte alla venerazione dei fedeli. Nel 1578 il duca Emanuele Filiberto la portò
a Torino dove trasferì la capitale del ducato. Sull’autenticità della Sindone si è scritto tanto e tante sono state le analisi fatte sull’immagine che vi appare e sulle sostanze chimiche che la formano. A questo proposito San Giovanni Paolo II ebbe a dire il 24 maggio 1998 nel duomo di Torino: «La Sindone è provocazione all’intelligenza. Essa richiede innanzitutto l’impegno di ogni uomo, in particolare del ricercatore, per cogliere con umiltà il messaggio profondo inviato alla sua ragione ed alla sua vita. Il fascino misterioso esercitato dalla Sindone spinge a formulare domande sul rapporto tra il sacro Lino e la vicenda storica di Gesù… [La Chiesa] affida agli scienziati il compito di continuare ad indagare per giungere a trovare risposte adeguate agli interrogativi connessi con questo Lenzuolo che, secondo la
tradizione, avrebbe avvolto il corpo del nostro Redentore quando fu deposto dalla croce».
Il «Volto santo di Antro» è, dunque, una riproduzione della Sindone o della Veronica? Entrambe
le ipotesi sono difficili da dimostrare anche perché se esaminate singolarmente – solo Sindone o
solo Veronica – presentano contraddizioni difficilmente giustificabili. Oppure il pittore sloveno
Jernej di Škofja Loka ha voluto fondere in un’unica immagine i due modelli iconografici? Si tratta
di un’ipotesi suggestiva ma che da un confronto con i due modelli e i canoni delle loro riproduzioni
nonché da un’attenta osservazione del «Volto santo» di Antro presenta delle incongruenze
e pone due interrogativi. Perché Jernej o altri hanno tentato di coprire con una tinta bruno rossastra l’aureola d’oro che circondava l’intero volto e che in parte appare sul lato destro dell’immagine? Perché e da chi sul capo di Cristo è stata dipinta grossolanamente una corona di spine che oggi appare talmente sbiadita da lasciare intravedere i capelli e che mal si concilia con il tratto deciso e i contorni marcati di Jernej da Škofja Loka? Non trovando risposte soddisfacenti a questi quesiti sono arrivato alla conclusione che alla base del «Volto santo» di Antro ci sia un’immagine originaria sulla quale, nel corso dei secoli, sono stati fatti ritocchi e aggiunte da più di una mano. Il mistero si fa, allora, più fitto e di difficile soluzione in base ai soli due modelli della Sindone e della Veronica.

“Mandylion”, l’immagine di Gesù non dipinta da mano umana

3Mandylion sito

Per trovare una risposta ai quesiti che pone il «Volto santo» di Antro ho fatto letture, comparazioni con immagini coeve della Sindone e della Veronica e mi sono confrontato con persone che sull’argomento sapevano più di me. Ad indirizzarmi nella giusta direzione è stato il prof.
Massimo Baldacci, docente presso le Università dell’Aquila e di Stuttgart (Germania).
Considerato come uno dei più autorevoli specialisti a livello mondiale di cultura cananea il prof.
Baldacci è anche un appassionato studioso ed esperto di spiritualità e iconografia bizantino-slava
e fino al 2011 ha curato per «Dom» una seguita rubrica su questo tema. Tempo fa gli ho inviato
una foto del «Volto santo» di Antro chiedendogli lumi sulla sua origine e il suo significato. Mi
ha risposto brevemente che alla base di quell’immagine potrebbe essere un «Mandylion».
Non mi è stato difficile trovare in pubblicazioni sull’iconografia bizantina questo nome, il suo
significato, la storia sull’origine dell’immagine e le avventurose vicende che l’hanno accompagnata
lungo i secoli.
Il nome deriva dal siriaco «mandilion» ed ha un significato abbastanza ampio: fazzoletto, asciugamano,
ma anche sudario; in ambiente siro-palestinese del secolo VIII indicava il velo posto
sopra la testa dei decapitati. Il termine è poi passato al greco mandylion, all’arabo mandil, al latino
mantilium, all’italiano arcaico mantile nel senso di tovaglia. Nell’Italia meridionale indica il
telo di lino con pizzi e ricami che le donne portano ripiegato in varie fogge sul capo (M. Centini,
Dal Mandylion alla Veronica, www.europassioneitalia.com – con bibliografia). Mediato probabilmente
dal friulano, il termine «mantíl» si trova anche nel dialetto sloveno del Natisone con il
significato di tovaglia da tavolo o da altare. Nell’iconografia bizantina il «Mandylion» rappresenta il volto di Cristo dipinto su un panno, incorniciato da un’aureola con capelli divisi simmetricamente che scendono sui lati del capo ripartendosi in due ciuffi quasi all’altezza della barba biforcata. Sul nimbo crociato si trovano le lettere greche omicron, omega ed eta, che traducono il nome rivelato a Mosè sul monte Sinai: «Io sono colui che sono» (Es 3,14). La fronte è ampia, il naso lungo, gli occhi aperti, la bocca piccola.
L’origine di questa immagine è narrata in un «Sinassario» che nella liturgia bizantina riporta notizie
più o meno storiche sul contenuto e l’oggetto di una festa liturgica. Il «Sinassario del
Mandylion» (la ricorrenza liturgica si celebra il 16 ogosto) composto intorno all’anno 1000, ricorda
la vicenda di Abgar re di Edessa (l’odierna Urfa, in Turchia) che soffriva di lebbra e di gotta.
Dopo aver provato invano ogni sorta di medicina ed essersi rivolto ai migliori medici, venne a
sapere dei miracoli che Gesù compiva a Gerusalemme. Nei giorni della passione inviò in
Palestina Anania (o Hanna), suo segretario ed ottimo ritrattista, con un doppio incarico: consegnare
una lettera a Gesù e farne un ritratto il più fedele possibile.
Il testo della lettera era: «Abgar, toparco della città di Edessa, a Gesù Cristo eccellente medico
apparso a Gerusalemme, salve! Ho sentito parlare di te e delle guarigioni che operi senza medicamenti.
Raccontano infatti che fai vedere i cechi, camminare gli zoppi, che mondi i lebbrosi,
scacci i demoni e gli spiriti impuri, risani gli oppressi da lunghe malattie e resusciti i morti.
Avendo udito di te tutto questo mi è venuta la convinzione di due cose: o che sei figlio di quel
Dio che opera queste cose, o che tu sei Dio stesso. Perciò ti ho scritto pregandoti di venire da me
e di risanarmi dal morbo che mi affligge e di stabilirti presso di me. […]». Anania andò a
Gerusalemme, consegnò la lettera e provò ad eseguire il ritratto richiestogli ma non vi riuscì perché
«il viso del Cristo emanava uno splendore troppo intenso per essere dipinto». Gesù, comprendendo
le sue difficoltà, chiese dell’acqua per lavarsi ed un asciugamano: su di esso impresse
l’immagine del suo volto che consegnò ad Anania, insieme ad una missiva di risposta ad Abgar:
«Hai creduto in me, sebbene tu non mi abbia visto. Di me, infatti, sta scritto che chi mi vedrà non
crederà in me, affinché coloro che non mi vedranno credano in me e vivano. Quanto all’invito che
mi hai fatto di venire da te, ti rispondo che bisogna che io adempia qui tutta intera la mia missione,
e che dopo il suo compimento io torni da Colui che mi ha mandato. Quando sarò asceso presso
di lui, ti manderò uno dei miei discepoli, di nome Taddeo, a guarirti dal male ed offrire la vita
eterna e la pace a te ed ai tuoi, e fare per la città quanto necessario per difenderla dai nemici».
Abgar accolse con grandi onori e profonda venerazione la lettera e il ritratto e subito guarì dai
suoi mali, ad eccezione di qualche punto di lebbra sul volto. Dopo l’Ascensione di Cristo arrivò a Edessa l’apostolo Taddeo che immediatamente portò Abgar e la sua famiglia al fonte battesimale. Abgar, dopo l’immersione, uscì completamente guarito e, pieno di fervore per la nuova religione, fece fissare l’immagine di Gesù sopra una tavola ornata d’oro che venne collocata al centro della città, in una nicchia da cui fu tolta una statua pagana in precedenza molto venerata, ed esposta al culto con la scritta «Cristo Dio, chi in te spera non si perderà». Lì l’immagine rimase sotto il regno di Abgar e di suo figlio. Ma il nipote di re Abgar ripudiò la fede cristiana e decise di distruggere la preziosa reliquia. Avvertito in sogno da un angelo, il vescovo della città fece murare l’immagine occultandola con una ceramica e ponendo davanti una lampada.
Il Mandylion venne così dimenticato per secoli, fino a quando Cosroe I, re di Persia (531-579),
dopo aver saccheggiato tutte le città dell’Asia, cinse d’assedio Edessa. La città stava per essere
conquistata quando una rivelazione manifestò al vescovo Eulavio l’esistenza della reliquia.
Scavato il muro, apparve l’immagine: la lampada era ancora accesa e aveva contribuito ad imprimere
l’immagine di Cristo anche sulla ceramica che la nascondeva. Estratta la reliquia, venne
organizzata una processione sulle mura della città e miracolosamente tutto l’apparato militare dei
persiani si incendiò cosicché essi dovettero togliere l’assedio e fuggire subendo una grave disfatta.
Molti imperatori bizantini, si legge ancora nel Sinassario, tentarono di entrare in possesso della
reliquia di Edessa, che, nel frattempo, era caduta in mano saracena. L’imperatore d’Oriente,
Romano I Lecapeno (920-944), dopo lunghe trattative e a caro prezzo, riuscì ad ottenere il
Mandylion. Saputo dell’accordo, la comunità cristiana di Edessa si ribellò, ma dovette cedere alle
ragioni di Stato e la reliquia, insieme alla lettera autografa di Gesù al re Abgar, venne portata a Costantinopoli, in un grandioso corteo. Secondo il Sinassario, il 15 agosto dell’anno 944, il corteo
arrivò al santuario della Theotòkos di Blacherne, ove la reliquia venne esposta ai fedeli e
venerata dalla famiglia imperiale. L’indomani, 16 agosto, la sacra immagine venne portata solennemente nella chiesa della Theotòkos detta «del Faro», dove venne collocata definitivamente.
Sull’esistenza e la venerazione del Mandylion esistono testimonianze molto più antiche del
Sinassario. Ne scrissero Eusebio di Cesarea (265-340), che però ricorda solo la corrispondenza
tra Gesù e Abgar, la pellegrina Egeria (IV-V sec.), Evagrio Scolastico (536-590), S. Giovanni
Damasceno (ca. 676-749). Infine, l’ultimo testo rilevante riguardo al Mandilyon è uno dei fondamentali
resoconti crociati, quel «La conquête de Constantinople» del cavaliere piccardo Robert
de Clary che, nel 1204, partecipò alla conquista ed al saccheggio di Costantinopoli da parte dei
partecipanti alla quarta crociata. Da quell’anno non si seppe più nulla di preciso sul Mandilyon
anche se a rivendicarne il possesso sono ancor oggi Genova, Manoppello (Ch) e Roma…

Il modello del volto santo di Antro è venuto da Oriente?

Al fine di questa ricerca non mi sembra rilevante approfondire la storia e l’autenticità delle immagini
che si richiamano al Mandylion, quanto sottolineare come il volto di Gesù «non dipinto da
mano umana» sia stata riprodotto nell’iconografia bizantina, diffuso e venerato nelle Chiese
d’Oriente piuttosto che in quella latina e ciò al fine di illustrare la prima ipotesi sull’origine del
«Volto santo» di Antro.
L’immagine di Gesù rimasta impressa su quel panno, grazie alla quale re Abgar di Edessa guarì
dalla lebbra e dalla gotta, dunque, non è stata realizzata da un pittore ma era «acherotipa» (in
russo «spas nerukotvorenyi»), cioè non dipinta da mano umana. Sulla base di quel prototipo, gli
iconografi realizzarono diversi tipi di Mandylion che entrarono a far parte della tradizione bizantina.
È possibile che il «Volto santo» di Antro fosse stato un Mandylion prima di essere stato
«ritoccato» da Andrej di Škofja Loka? E da chi e in quale epoca fu dipinto l’«originale»? Attraverso quali strade quel modello iconografico arrivò nella Grotta d’Antro?
Nella ricerca pubblicata in queste pagine sulla cappella della «Sacrata Vergine antiqua» (Dom
14/2005-2/2006), presente nella Grotta d’Antro, ho ricordato che, in particolare nel corso dei
secoli VI e VII, gruppi di monaci provenienti dalla Palestina, dalla Siria e dall’Asia Minore arrivarono
in Occidente fuggendo davanti alle invasioni dei persiani e degli arabi.
In seguito arrivarono in Italia anche «artisti profughi dal Vicino Oriente per effetto dell’avanzata
islamica e delle persecuzioni iconoclastiche, e accolti a Roma da papi siriaci e quindi inviati
ad operare anche nell’ambito della corte regia e delle minori corti longobarde in Italia» (S.
Tavano, Note sul «tempietto» di Cividale, in Studi cividalesi, «Antichità altoadriatiche»,
VII/1975, p. 60). È quindi possibile che quei monaci arrivarono nel ducato longobardo del Friuli
come in altre regioni dell’Italia settentrionale portando con sé le immagini sacre e la tradizione
iconica orientale. È possibile che abbiano portato anche l’icona della «sacrata Vergine antiqua»
che il canonico Missio nella visita alla Grotta d’Antro vide, nel 1602, nella cappella a destra della
chiesa di S. Giovanni Battista, e dipinsero il Volto santo-Mandylion su malta bianca apposta in
una nicchia scavata nella roccia viva. Che abbiano seguito questa tecnica è testimoniato dalla
vicina nicchia (cm 20×22) che l’iconografo non ha avuto il tempo (?) di riempire e dipingere. Si
tratta di una tecnica tradizionale nella «scrittura» delle icone: nel legno (solitamente di tiglio) si
pratica uno scavo chiamato «arca» (in russo «kovčeg», in greco «kibotros») riferito all’arca dell’alleanza nella quale venivano conservate le tavole della legge e simboleggiava la presenza di
Dio in mezzo al popolo ebraico. Allo stesso modo l’«arca», scavata nel legno, contiene e rende
presente il soggetto o l’evento sacro espresso dall’icona. Simili «arche» vuote ricavate nella pietra
ho visto nella parte superiore del teatro greco di Siracusa, all’esterno di tombe scavate nella
parete rocciosa risalenti all’epoca bizantina (VI-VII secolo). Quelle nicchie contenevano immagini
sacre che, a causa del tempo e degli eventi atmosferici, sparirono assieme alla malta su cui
erano dipinte. La tesi della presenza dei bizantini nella Grotta d’Antro trova ulteriore conferma
nella scritta greca, che si trova nell’abside della cappella di san Giovanni e che parla di un tempio
(fanoma) ricostruito (cfr. F. Nazzi, La Grotta d’Antro nell’Alto Medioevo – Landarska jama
v Visokem srednjem veku, Cividale 2005)

Furono i templari a portare il “volto santo”  nella grotta d’Antro?

3 Mandylion e fiore sito

La seconda ipotesi sull’origine del «Volto santo» di Antro si incrocia con la presenza di uno degli
ordini cavallereschi medievali nella Grotta di San Giovanni. Poiché si tratta di una storia del tutto
inesplorata e priva di fonti scritte, mi limiterò a fare dei cenni proponendomi di riprendere l’argomento
quando avrò acquisito ulteriori dati e fatto i debiti approfondimenti.
Di scritto esiste solo un piccolo indizio nel volume di MGB. Altan Ordini cavallereschi in Friuli.
Templari, Giovanniti, Teutonici. Antichi ospedali e storia dell’assistenza in Friuli (Reana del
Rojale 1998) dove la Grotta d’Antro viene ricordata come punto di sosta lungo la via che i pellegrini
provenienti dal Nord percorrevano per raggiungere i luoghi santi.
Nel capitolo dedicato all’elenco degli «xenodochi, ospitali, ospizi, fondazioni cavalleresche» e
dei cenobi «che avevano tra i loro scopi quelli dell’ospitalità ed assitenza» l’autore ricorda anche
San Giovanni d’Antro del quale scrive: «Ricetto e santuario antichissimo. Cenobiolo guarnente
la strada di Val Natisone verso la Slavia. Sec. VIII» e come fonte cita il volume di Mario Brozzi
«Il ducato longobardo del Friuli», Udine 1981, p. 92 e segg.
Si tratta di una testimonianza tanto labile quanto preziosa ai fini della fondatezza dell’ipotesi sulla
presenza di un qualche ordine cavalleresco nella Grotta d’Antro e della conseguente possibilità
che il «Volto santo» sia stato dipinto nel contesto di quella temperie.
Nel volume Altan si sofferma in particolare su tre ordini cavallereschi: Templari, Giovanniti e
Teutonici. Il più noto è senz’altro quello dei Cavalieri del Tempio o Templari. Costituito ufficialmente
nel 1128 l’Ordine monastico aveva il compito, tra gli altri, di proteggere e difendere
anche con le armi i pellegrini che si recavano sui luoghi santi.
Nell’arco di un paio di secoli l’Ordine crebbe divenendo sempre più potente e ricco, acquistando
territori in tutta l’Europa, in particolare in Italia e in Francia dove furono fondate chiese e sedi dei
monaci guerrieri. Anche quando la Terrasanta fu definitivamente perduta (1187 caduta di
Gerusalemme, 1291 caduta di S. Giovanni d’Acri) l’Ordine continuò a prosperare, proseguendo la sua opera di difesa dei pellegrini. A raccogliere l’eredità dei Templari, che nel 1314 furono violentemente
soppressi, fu l’ordine dei Giovanniti o Ospedalieri ed anche quello Cavalieri teutonici che continuarono l’opera di assistenza e di cura dei pellegrini lungo i percorsi che portavano ai luoghi santi.
È possibile che uno di questi ordini abbia adibito la Grotta d’Antro, già meta di pellegrinaggi, in luogo di sosta dei viandanti? È possibile per due ragioni. La Grotta d’Antro costituiva un rifugio sicuro e sufficientemente ampio per ospitare numerose persone. Dai materiali e dalle tecniche di costruzione nonché dalle giunture che si notano nella volta del tunnel d’ingresso si deduce che questo, assieme a quello parallelo nel quale scorre il torrente in caso di forti piogge, fu costruito in tre momenti successivi. Si tratta di un’opera di enormi proporzioni che richiese una grande maestria e maestranze esperte che potevano essere assicurate solo da un’organizzazione che disponeva di una solida struttura e di notevoli mezzi finanziari. È possibile, quindi, che uno di quegli ordini abbia ampliato e ristrutturato il complesso monumentale di origine bizantino-longobarda.
La probabile presenza di un ordine cavalleresco nella Grotta è, inoltre, testimoniata da alcuni
segni che si riscontrano in chiese o luoghi dove è certificata la presenza dei Templari o di altri
ordini cavallereschi. Si tratta di una «croce patente» (croce a bracci uguali che si allargano nella
parte esterna) e del «fiore della vita» a sei petali, o stella a sei punte entrambi inscritti in un cerchio.
Sia la croce che il fiore sono di colore rosso bruno, dipinti su malta bianca e si trovano sulla
parete rocciosa sinistra circa all’altezza del «Volto santo». Frammenti di croci e fiori si notano
sulla stessa parete, mentre croci patenti si vedono anche sulla base dell’altare e sulle pareti della
cappella gotica. Altro segno collegato alla presenza dei Templari è la «triplice cinta», nota come
filetto o tria. Ad Antro se ne trovano ben cinque: una sul selciato ai piedi della scalinata che porta
in grotta e quattro nel paese. Una di esse si vede su quel masso che era una delle «lastre» della
Banca di Antro; è interessante notare che su una delle due gambe del «tavolo» è scolpita una
croce patente. Rimando ad altra occasione l’illustrazione dell’origine e del significato di questi tre segni. In questo contesto voglio sottolineare che, in assenza di documenti scritti, la loro simultanea presenza
può rappresentare una valida testimonianza della presenza degli ordini cavallereschi in una località.
Ma i Templari che hanno da spartire con il Mandylion? Il «Volto santo» di Antro rappresenta una
possibile risposta a questa domanda. Perché i Templari conoscevano il Mandylion e dal 1204
(anno della sua scomparsa da Costantinopoli) fino al XIV secolo furono in possesso della
Sindone. Furono perfino accusati di adorare un «idolo barbuto» che non era altro se non il volto
della Sindone che appariva dopo aver ripiegato il lenzuolo in quattro parti. Ciò contribuì al fatto che per un lungo periodo Mandylion e volto della Sindone furono confusi e sovrapposti fino a far dimenticare l’esistenza del primo. Ma il ricordo e le icone del «Volto santo» rimasero e continuarono a circolare negli ambienti degli ordini cavallereschi e altrove. Ecco quindi l’eventualità che il volto del Mandylion-Sindone sia stato dipinto al tempo della presenza dei Templari o dei loro eredi nella Grotta d’Antro. O lo hanno già trovato e lo hanno valorizzato secondo i loro canoni chiedendo a Jernej da OEkofja Loka di ripristinare o ridipingere il Mandylion con le macchie di sangue che appaiono sulla Sindone? Va ricordato, infine, che il Mandylion era un’icona nota nel mondo artistico sloveno. Lo dimostra il «Volto santo» dipinto nella chiesa di San Pietro di Chiazzacco–Tieje (Prepotto). Gli affreschi sono opera del pittore sloveno Janez Ljubljanski (o della sua scuola) che operò in Slovenia dal 1443 al 1459 (T. Venuti, Storia e caratteri delle chiesette votive slovene – Zgodovina in značilnosti slovenskih gotskih cerkvic, in Sulle strade di Andrea da Loka – Po poteh Andreja iz Loke, San Pietro al Natisone s.d.).
Al termine di questa ricerca invito quanti ne sanno più di me ad intervenire su questo argomento,
a portare nuovi elementi interpretativi, a contribuire con le loro conoscenze a capire la presenza
e il messaggio del «Volto santo» della Grotta d’Antro.

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