Si sa, ognuno di noi è condizionato, fin dalla nascita, da fattori esterni di ogni genere. Come individui è la società in cui viviamo che plasma la nostra personalità, che ci porta a relazionarci cogli altri, assumendone quindi la lingua, i valori che danno senso al nostro comportamento, le direttrici psichiche che indirizzano le nostre aspirazioni. Non è mia intenzione addentrarmi nei labirinti delle teorie della psicologia e della psicopatologia, sappiamo però tutti quanto l’ambiente in cui viviamo influisca sulle nostre scelte, sul nostro modo di pensare, sulle emozioni, sul valore positivo o negativo che diamo alle cose.
È dai tempi dei miei studi universitari per le mia tesi di laurea che il mio interesse si è orientato verso la problematica della formazione dell’identità nello specifico mondo in cui sono nato e che, per diverse ragioni, avevo abbandonato. Eravamo nell’immediato post-terremoto che ha sconvolto il Friuli nel 1976 e conducevo la mie personale ricerca sui problemi di identificazione dei bambini sloveni delle nostre Valli. Che ne fossero coscienti o meno, che lo accettassero o meno come un dato di fatto, allora, di «sloveni» – bambini, adulti o vecchi – ce n’erano, e tanti, tra i circa 9.000 abitanti di allora. Non era difficile comprendere quanto le avversità patite già da u secolo avessero influenzato il modo di immaginare se stessi, di definirsi, di darsi un’identità compiuta, in linea con i dati etnolinguistici oggettivi. Le domande che mi ponevo, quasi da esterno al mondo cui appartenevo – ed i effetti da esterno avevo vissuto già dall’infanzia – erano semplici: perché io stesso o la mia gente rifiuta la propria identità storica, perché giudica come un disvalore la sua vera profonda natura frutto della propria storia, espressa nella propria lingua, nei valori ad essa collegati, nella cultura ancestrale retaggio di centinaia di generazioni? Perché abbiamo perso quell’orgoglio e quel forte senso di appartenenza ad un piccolo popolo che un paio di secoli addietro era disposto a difendere con le armi? Perché quel forte senso di inferiorità di fronte alla maggioranza italiana aggressiva e xenofoba che ci bistrattava da un secolo? Domande queste apparentemente retoriche, tali che già contengono la risposta. Ma ciò è vero solo in parte, perché le possibili risposte all’aggressività, alla sopraffazione, alla minaccia non sono solo la fuga, la sottomissione, il mascheramento o addirittura l’identificazione stessa con l’aggressore. Resistere, rimanere attaccati ai propri valori, difendersi, sostenere e riaffermare con ogni mezzo i propri diritti sono risposte di ben altra natura, mostrano coraggio, stima di se stessi, orgoglio di appartenenza, consapevolezza del proprio diritto e del valore della propria identità. Quarant’anni fa mi ponevo domande del genere e da allora mi sono unito ad altri coraggiosi, facendo del mio meglio per cercare antidoti a questo nostro umiliante senso di inferiorità. Molti, le Istituzioni stesse, a partire dalla Costituzione, dalle proclamazioni dei diritti dell’uomo, dalle leggi di tutela delle minoranze linguistiche, dal coraggio individuale e di gruppo delle associazioni, dei circoli, della scuola e dei giornali, hanno cercato, proposto, prodotto antidoti a questa malattia sociale, al senso di inferiorità, allo sdoppiamento della personalità tra due identità che vengono presentate come antitetiche –italiano o sloveno – e che invece sono mirabilmente complementari. L’identità italiana come cittadini dello stato cui apparteniamo e l’identità slovena che è l’anima, in senso profondo del nostro essere. Perché vergognarcene?
Questi i miei pensieri, le mie riflessioni ed il mio rammarico, a seguito di un piccolo fatto della mia quotidianità. Passando in auto sul rettilineo che dal ponte sull’Alberone, sotto Azzida /Ažla, porta a Cemur/Čemur sta una tabella, a sfondo marrone e scritta in bianco, che indica l’ingresso nel territorio del comune di san Leonardo. È una legge dello Stato che stabilisce la doppia dicitura, in italiano e sloveno del nome. Ed infatti ci sono. La cosa non mi va affatto bene. A qualcuno sembrerà una ricerca del pelo nell’uovo ma non lo è, perché è il nome che ci dà l’identità; a noi come alle cose e ai luoghi; un simbolo, un segno che ci distingue, che ne riferisce i connotati.
Dite che esagero quando dico che per me, che non ho perso l’orgoglio della mia appartenenza etnica e linguistica, quella riduzione di carattere nella scritta Svet Lienart è offensiva? Una parte di me si ribella perché quella tabella mette in risalto che io come sloveno sono inferiore, che non merito la stessa attenzione come persona e, al contrario, enfatizza la mia condizione di «cittadino italiano», ma non con i miei pieni diritti costituzionali; cittadino come «suddito», come inferiore, di minor valore. Se poi penso che quella scritta l’hanno voluta così persone come me, della mia stessa appartenenza e per ragioni della più squallida politica, per vigliaccheria e per senso di inferiorità, mi cadono le braccia e mi dico: siamo nel 2015 e tra la mia gente regna ancora la «sindrome dello schiavo».
Ecco la definizione: «In un individuo, la sindrome dello schiavo è un comportamento patologico che lo porta a difendere sistematicamente le classi più privilegiate a discapito di quelle da cui proviene egli stesso. Questa sindrome diminuisce le capacità d’analisi dello schiavo e si traduce in un bloccaggio psicologico che lo incita ad agire di preferenza contro i suoi propri interessi al profitto di quelli che lo sfruttano». (Riccardo Ruttar)
Un cartello che evidenzia un complesso di inferiorità
Si sa, ognuno di noi è condizionato, fin dalla nascita, da fattori esterni di ogni genere. Come individui è la società in cui viviamo che plasma la nostra personalità, che ci porta a relazionarci cogli altri, assumendone quindi la lingua, i valori che danno senso al nostro comportamento, le direttrici psichiche che indirizzano le nostre aspirazioni. Non è mia intenzione addentrarmi nei labirinti delle teorie della psicologia e della psicopatologia, sappiamo però tutti quanto l’ambiente in cui viviamo influisca sulle nostre scelte, sul nostro modo di pensare, sulle emozioni, sul valore positivo o negativo che diamo alle cose.
È dai tempi dei miei studi universitari per le mia tesi di laurea che il mio interesse si è orientato verso la problematica della formazione dell’identità nello specifico mondo in cui sono nato e che, per diverse ragioni, avevo abbandonato. Eravamo nell’immediato post-terremoto che ha sconvolto il Friuli nel 1976 e conducevo la mie personale ricerca sui problemi di identificazione dei bambini sloveni delle nostre Valli. Che ne fossero coscienti o meno, che lo accettassero o meno come un dato di fatto, allora, di «sloveni» – bambini, adulti o vecchi – ce n’erano, e tanti, tra i circa 9.000 abitanti di allora. Non era difficile comprendere quanto le avversità patite già da u secolo avessero influenzato il modo di immaginare se stessi, di definirsi, di darsi un’identità compiuta, in linea con i dati etnolinguistici oggettivi. Le domande che mi ponevo, quasi da esterno al mondo cui appartenevo – ed i effetti da esterno avevo vissuto già dall’infanzia – erano semplici: perché io stesso o la mia gente rifiuta la propria identità storica, perché giudica come un disvalore la sua vera profonda natura frutto della propria storia, espressa nella propria lingua, nei valori ad essa collegati, nella cultura ancestrale retaggio di centinaia di generazioni? Perché abbiamo perso quell’orgoglio e quel forte senso di appartenenza ad un piccolo popolo che un paio di secoli addietro era disposto a difendere con le armi? Perché quel forte senso di inferiorità di fronte alla maggioranza italiana aggressiva e xenofoba che ci bistrattava da un secolo? Domande queste apparentemente retoriche, tali che già contengono la risposta. Ma ciò è vero solo in parte, perché le possibili risposte all’aggressività, alla sopraffazione, alla minaccia non sono solo la fuga, la sottomissione, il mascheramento o addirittura l’identificazione stessa con l’aggressore. Resistere, rimanere attaccati ai propri valori, difendersi, sostenere e riaffermare con ogni mezzo i propri diritti sono risposte di ben altra natura, mostrano coraggio, stima di se stessi, orgoglio di appartenenza, consapevolezza del proprio diritto e del valore della propria identità. Quarant’anni fa mi ponevo domande del genere e da allora mi sono unito ad altri coraggiosi, facendo del mio meglio per cercare antidoti a questo nostro umiliante senso di inferiorità. Molti, le Istituzioni stesse, a partire dalla Costituzione, dalle proclamazioni dei diritti dell’uomo, dalle leggi di tutela delle minoranze linguistiche, dal coraggio individuale e di gruppo delle associazioni, dei circoli, della scuola e dei giornali, hanno cercato, proposto, prodotto antidoti a questa malattia sociale, al senso di inferiorità, allo sdoppiamento della personalità tra due identità che vengono presentate come antitetiche –italiano o sloveno – e che invece sono mirabilmente complementari. L’identità italiana come cittadini dello stato cui apparteniamo e l’identità slovena che è l’anima, in senso profondo del nostro essere. Perché vergognarcene?
Questi i miei pensieri, le mie riflessioni ed il mio rammarico, a seguito di un piccolo fatto della mia quotidianità. Passando in auto sul rettilineo che dal ponte sull’Alberone, sotto Azzida /Ažla, porta a Cemur/Čemur sta una tabella, a sfondo marrone e scritta in bianco, che indica l’ingresso nel territorio del comune di san Leonardo. È una legge dello Stato che stabilisce la doppia dicitura, in italiano e sloveno del nome. Ed infatti ci sono. La cosa non mi va affatto bene. A qualcuno sembrerà una ricerca del pelo nell’uovo ma non lo è, perché è il nome che ci dà l’identità; a noi come alle cose e ai luoghi; un simbolo, un segno che ci distingue, che ne riferisce i connotati.
Dite che esagero quando dico che per me, che non ho perso l’orgoglio della mia appartenenza etnica e linguistica, quella riduzione di carattere nella scritta Svet Lienart è offensiva? Una parte di me si ribella perché quella tabella mette in risalto che io come sloveno sono inferiore, che non merito la stessa attenzione come persona e, al contrario, enfatizza la mia condizione di «cittadino italiano», ma non con i miei pieni diritti costituzionali; cittadino come «suddito», come inferiore, di minor valore. Se poi penso che quella scritta l’hanno voluta così persone come me, della mia stessa appartenenza e per ragioni della più squallida politica, per vigliaccheria e per senso di inferiorità, mi cadono le braccia e mi dico: siamo nel 2015 e tra la mia gente regna ancora la «sindrome dello schiavo».
Ecco la definizione: «In un individuo, la sindrome dello schiavo è un comportamento patologico che lo porta a difendere sistematicamente le classi più privilegiate a discapito di quelle da cui proviene egli stesso. Questa sindrome diminuisce le capacità d’analisi dello schiavo e si traduce in un bloccaggio psicologico che lo incita ad agire di preferenza contro i suoi propri interessi al profitto di quelli che lo sfruttano». (Riccardo Ruttar)
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