Alquanto significativa appare la prossima settimana, la prima di novembre. Ognissanti, commemorazione dei defunti, festa dell’Unità d’Italia e delle Forze armate. Cielo, coi suoi misteri dell’ultraterreno; terra, custode di spoglie mortali con la consapevolezza della caducità di ogni pretesa; Unità d’Italia, per celebrare l’inizio di un percorso unitario più vagheggiato che realmente voluto e perseguito; festa delle Forze armate come riconoscimento dei servizi alla «patria » prevista al Circo massimo di Roma, ma «annullata per motivi di sicurezza». Una festa che dovrebbe celebrare l’organo di sicurezza dello Stato per antonomasia che chiude per paura?
In effetti in questo tempo tempe-stoso basta un invasato di una divinità quanto meno crudele e vendicativa che estrae un’arma, per sconvolgereogni sicurezza, chiaramente più terrificante e subdolo del virus che ha riempito innumerevoli e immensi cimiteri in ogni angolo del mondo. Ci verrà un qualche pensiero, una qualche riflessione di fronte alle file di tombe arricchite di crisantemi e mazzi di fiori, accanto alle lapidi con foto e date che suscitano ravvivano ricordi e rimpianti!
Lassù, nell’angolo del piccolo cimitero di Kravar/Cravero, dietro la chiesa sul pianoro,troppo grande e abbandonata, stanno le tombe a me care: i miei genitori e sul muro retrostante le lapidi sbiadite delle nonne. Erano le costanti custodi della nostra fanciullezza, e troppo presto se ne sono andate, prima che potessi raccogliere da loro i ricordi più vivi rimasti per lo più nascosti dietro i loro silenzi e le loro avemarie.
Ma qualcosa ho colto e, in mancanza delle loro confidenze, ho supplito con la ricerca documentale o meno. Ho le fotografie anche dei nonni ed esse mi portano molto lontano nel tempo, perché di essi non è stato possibile ritrovare un loculo su cui deporre un fiore. Per quest’Italia, ancora oggi in cerca di Unità, ha combattuto il mio nonno materno, oltre un secolo fa, quando per «l’inutile strage» del primo conflitto mondiale si è perso in chissà quale battaglia sul fronte alpino. In tutti gli ossari l’ha cercato mia madre, magari uno tra 60.330 militi ignoti, sopra le cui ossa il duce aveva fatto apporre la famosa scritta ripetuta ossessivamente sui gradoni: «Presente», come se tutti i 100.000 fossero ancora lì schierati, al suo comando e per la sua gloria, come quando, da vivi, così erano tenuti a rispondere schierati in riga all’appello. Forse erano lì tra loro i resti mortali di mio nonno.
Aveva due anni mia madre quando il padre ricevette la cartolina precetto. Indossò l’unico vestito della festa ed abbracciò la moglie con il dubbio atroce del non ritorno. È la guerra, sempre quella, la maledizione del genereumano. «Tata ne iti! Tata ne iti» gridava la piccola, abbarbicata ai pantaloni del padre, aveva capito, e a stento la trattenne la mamma lungo il viottolo che scendeva in paese. «Papà non andare! Papà non andare!». È il grido di ogni bambino, allora come oggi, quando la maledizione ritorna e l’uomo perde la sua umanità per diventare il distruttore degli altri e di se stesso.
«Milja, varvi mojo Vigico!», Emilia custodisci la mia piccola Luigia! E non è più tornato; milite ignoto, carne da cannone, per la smania di conquista del solito pazzo scatenato. Ieri come oggi. Del nonno paterno si era conclusa l’esistenza nello stesso periodo, ma lontano, nel caotico e crudele mondo della rivoluzione russa, scomparso come «kulak», contadino russo espropriato di beni e libertà. So molto della sua vita da emigrante, ma nulla della sua morte e della sua tomba. Ecco, si appressa la festa di Tutti i Santi, una festa che richiama a un mondo etereo, sperato e agognato dei credenti cristiani; un al di là del corpo, oltre il disfacimento dell’umanità materiale, nell’esaltazione dello spirito, dell’anima, del sentimento, dell’amore, dell’altruismo, della solidarietà, della ricerca della pace. Segno disperanza al di là dell’annullamento totale, dove tutto perde ogni senso nel nulla.
Fa paura la morte, proprio per l’incognita del possibile «poi», ma siamo fatti tutti per evitare pensieri spiacevoli ed ecco l’antidoto inventato per distrarsi sbeffeggiando quell’aldilà comunque temuto: «Trick or treat – Dolcetto o scherzetto – Des bombons ou un sort …» e via traducendo per dire Halloween. Bambini che suonano i campanelli di casa sulle strade, mascherate e cortei, sfilate, fantasmi e travestimenti spinti nel macabro ed invenzione di sollazzi e divertimenti di ogni tipo e dovunque. Un’occasione in più per un divertimento senza limiti o regole. Il mondo è fatto così, viene da dire, e se si tenta di definirlo nella sua sregolatezza vi si incontra un vocabolo che ha perso il senso ed i contenuti ideali: libertà, libertà per ognuno intesa a suo modo. Libertà come rifiuto di limiti, di regole, di principi universali, di senso di responsabilità verso il vicino ed il simile. Si diceva una volta con ben altro senso di responsabilità e visione: Dio, patria e famiglia. L’aldilà, il senso di appartenenza ad una comunità solidale, la dignità umana nel rispetto dell’uomo delle formazioni sociali. Oggi il tutto ridotto ad uno slogan di subdola propaganda elettorale. Cos’è rimasto di serio?
Riccardo Ruttar
«Tata ne iti», E non è più tornato
Alquanto significativa appare la prossima settimana, la prima di novembre. Ognissanti, commemorazione dei defunti, festa dell’Unità d’Italia e delle Forze armate. Cielo, coi suoi misteri dell’ultraterreno; terra, custode di spoglie mortali con la consapevolezza della caducità di ogni pretesa; Unità d’Italia, per celebrare l’inizio di un percorso unitario più vagheggiato che realmente voluto e perseguito; festa delle Forze armate come riconoscimento dei servizi alla «patria » prevista al Circo massimo di Roma, ma «annullata per motivi di sicurezza». Una festa che dovrebbe celebrare l’organo di sicurezza dello Stato per antonomasia che chiude per paura?
In effetti in questo tempo tempe-stoso basta un invasato di una divinità quanto meno crudele e vendicativa che estrae un’arma, per sconvolgereogni sicurezza, chiaramente più terrificante e subdolo del virus che ha riempito innumerevoli e immensi cimiteri in ogni angolo del mondo. Ci verrà un qualche pensiero, una qualche riflessione di fronte alle file di tombe arricchite di crisantemi e mazzi di fiori, accanto alle lapidi con foto e date che suscitano ravvivano ricordi e rimpianti!
Lassù, nell’angolo del piccolo cimitero di Kravar/Cravero, dietro la chiesa sul pianoro,troppo grande e abbandonata, stanno le tombe a me care: i miei genitori e sul muro retrostante le lapidi sbiadite delle nonne. Erano le costanti custodi della nostra fanciullezza, e troppo presto se ne sono andate, prima che potessi raccogliere da loro i ricordi più vivi rimasti per lo più nascosti dietro i loro silenzi e le loro avemarie.
Ma qualcosa ho colto e, in mancanza delle loro confidenze, ho supplito con la ricerca documentale o meno. Ho le fotografie anche dei nonni ed esse mi portano molto lontano nel tempo, perché di essi non è stato possibile ritrovare un loculo su cui deporre un fiore. Per quest’Italia, ancora oggi in cerca di Unità, ha combattuto il mio nonno materno, oltre un secolo fa, quando per «l’inutile strage» del primo conflitto mondiale si è perso in chissà quale battaglia sul fronte alpino. In tutti gli ossari l’ha cercato mia madre, magari uno tra 60.330 militi ignoti, sopra le cui ossa il duce aveva fatto apporre la famosa scritta ripetuta ossessivamente sui gradoni: «Presente», come se tutti i 100.000 fossero ancora lì schierati, al suo comando e per la sua gloria, come quando, da vivi, così erano tenuti a rispondere schierati in riga all’appello. Forse erano lì tra loro i resti mortali di mio nonno.
Aveva due anni mia madre quando il padre ricevette la cartolina precetto. Indossò l’unico vestito della festa ed abbracciò la moglie con il dubbio atroce del non ritorno. È la guerra, sempre quella, la maledizione del genereumano. «Tata ne iti! Tata ne iti» gridava la piccola, abbarbicata ai pantaloni del padre, aveva capito, e a stento la trattenne la mamma lungo il viottolo che scendeva in paese. «Papà non andare! Papà non andare!». È il grido di ogni bambino, allora come oggi, quando la maledizione ritorna e l’uomo perde la sua umanità per diventare il distruttore degli altri e di se stesso.
«Milja, varvi mojo Vigico!», Emilia custodisci la mia piccola Luigia! E non è più tornato; milite ignoto, carne da cannone, per la smania di conquista del solito pazzo scatenato. Ieri come oggi. Del nonno paterno si era conclusa l’esistenza nello stesso periodo, ma lontano, nel caotico e crudele mondo della rivoluzione russa, scomparso come «kulak», contadino russo espropriato di beni e libertà. So molto della sua vita da emigrante, ma nulla della sua morte e della sua tomba. Ecco, si appressa la festa di Tutti i Santi, una festa che richiama a un mondo etereo, sperato e agognato dei credenti cristiani; un al di là del corpo, oltre il disfacimento dell’umanità materiale, nell’esaltazione dello spirito, dell’anima, del sentimento, dell’amore, dell’altruismo, della solidarietà, della ricerca della pace. Segno disperanza al di là dell’annullamento totale, dove tutto perde ogni senso nel nulla.
Fa paura la morte, proprio per l’incognita del possibile «poi», ma siamo fatti tutti per evitare pensieri spiacevoli ed ecco l’antidoto inventato per distrarsi sbeffeggiando quell’aldilà comunque temuto: «Trick or treat – Dolcetto o scherzetto – Des bombons ou un sort …» e via traducendo per dire Halloween. Bambini che suonano i campanelli di casa sulle strade, mascherate e cortei, sfilate, fantasmi e travestimenti spinti nel macabro ed invenzione di sollazzi e divertimenti di ogni tipo e dovunque. Un’occasione in più per un divertimento senza limiti o regole. Il mondo è fatto così, viene da dire, e se si tenta di definirlo nella sua sregolatezza vi si incontra un vocabolo che ha perso il senso ed i contenuti ideali: libertà, libertà per ognuno intesa a suo modo. Libertà come rifiuto di limiti, di regole, di principi universali, di senso di responsabilità verso il vicino ed il simile. Si diceva una volta con ben altro senso di responsabilità e visione: Dio, patria e famiglia. L’aldilà, il senso di appartenenza ad una comunità solidale, la dignità umana nel rispetto dell’uomo delle formazioni sociali. Oggi il tutto ridotto ad uno slogan di subdola propaganda elettorale. Cos’è rimasto di serio?
Riccardo Ruttar
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