Siamo un popolo senza eredi?_Smo narod brez dedičev?

Questo dovrebbe essere un anno particolare per noi sloveni, il ventesimo della legge di tutela, soprattutto per noi Beneciani, che fummo fagocitati nel Regno d’Italia nei tempi in cui lo Stato sabaudo riusciva a mettere insieme i brandelli della penisola. Si diceva, a quei tempi, che se si era fatta l’Italia erano ancora da fare gli italiani.

Mi sono riletto per l’ennesima volta il programma stilato specificamente per la nostra italianizzazione. «Non faremo nessuna violenza; ma adopreremo la lingua e cultura di una civiltà prevalente quale è l’italiana per italianizzare gli Slavi in Italia, useremo speciali premure per migliorare le loro sorti economiche e sociali, per educarli, per attirarli a questa civiltà italiana, che deve brillare ai confini tra gli stessi che sono piuttosto ospiti nostri. (…) Supponiamo che tutti i giovanetti slavi che appartengono alla provincia di Udine sopra Cividale, Faedis, Attimis e Tarcento e nella Valle di Resia venissero istruendosi alla lingua e cultura italiana… è certo che la trasformazione sarebbe accelerata. … Ci sono tempi nei quali per difendere i confini della nazione si adoperano le armi; e ce ne sono altri in cui si adopera la parola educatrice ed il progresso economico» (Giornale di Udine 22 novembre 1866).

È molto utile un’esegesi, una lettura critica del testo completo, per evidenziare quanto quel famigerato programma presenti ancora oggi la sua nefasta portata. È veramente magistrale, ipnotica la fabulazione della politica italiana nel proporre belle visioni, per nascondere «realtà» di ben altra reale consistenza. Infatti, di quel programma di «civilizzazione» nei confronti delle comunità slovene, un popolo ritenuto incivile, arretrato, barbaro e semidemente, destinato a primo baluardo al confine, l’unico fatto concreto, applicato con pervicace sadismo, fu l’italianizzazione forzata, portata avanti di giorno in giorno, di anno in anno per tutti i 155 che ci separano dalla proclamazione. Sì, perché l’aggressività politica, la presa in giro, l’umiliazione, il disprezzo, la snazionalizzazione programmata, dopo un periodo di rodaggio divenne routine, consuetudine… regime. Sistematico, fino a portare i malcapitati a solidarizzare con l’aggressore.

Ci si può chiedere perché la nostra situazione odierna sia talmente involuta da preconizzare l’estinzionedi questa nostra civiltà che, nel suo piccolo, ha creato le Banche di Antro e Merso, le Vicinie, una democrazia e solidarietà interna che oggi potremmo chiamare come primo gruppo sociale che aveva adottato per sé, come retaggio di vita sociale ed economica, quello che oggi chiamano FIL la «Felicità Interna Lorda» in contrapposizione al PIL che sta distruggendo il pianeta nella follecorsa allo sfruttamento di ogni risorsa. Uomo e natura, un connubio,magari limitato alla pura sopravvivenza, ma segno di una civiltà ben diversa da quella bellicosa e aggressiva del mondo che li circondava.

Avessero messo a disposizione della gente «Slava» sopra Cividale, Faedis, Attimis, Resia, un briciolo di quella civiltà, cultura, attenzione, «premura» sbandierati con tanta enfasi dai vari poteri costituiti, saremmo oggi nelle condizioni disastrose che le comunità citate subiscono passivamente?

Lo so, purtroppo non siamo finiti solo noi in quel trita-culture, lingue e identità. Ci dice qualcosa di analogo quel motto friulano di tre sole parole: «Libars di scugnì là» – liberi di dover andarsene.

E di fatto, tra spopolamento, disattenzione colpevole ai diritti delle zone depresse montane, limitazione e smantellamento di servizi essenziali sul vasto territorio confinario, ci stanno indicando che quegli Slavi di allora o sono divenuti «altro», si sono italianizzati secondo il programma, o se ne sono andati. Molti chissà dove, la maggioranza al cimitero, senza lasciare la propria memoria storica, culturale, religiosa, civile, umana a chicchessia, privati di eredi e di discendenza consapevole. Non sono riusciti ad annientarci tutti, a italianizzarci del tutto, ma, di questo passo, di sloveno rimarrà forse solo un folclore da «PowWow» alla canadese, dove gli «indiani» americanizzati mettono in mostra musica, balli, insegne, cibo e artigianato indigeno, sfoggiando copricapi di piume d’aquila fasulle.

Riccardo Ruttar

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