Quei ladri di mele che stuzzicano i ricordi_Kraje jabolk obujajo spomine

Quando ero piccolo, vale a dire molto oltre mezzo secolo fa, in questo periodo dell’anno, quando noi scolaretti delle elementari tornavamo da scuola alla fine delle lezioni e dopo la refezione, quando ne potevamo usufruire, non c’era tempo per sedersi al tavolo della cucina per riposare, per giocare, per mettersi a fare i compiti o guardare la tv, che neppure ce la sognavamo. Là, sui ripidi prati disseminati di annosi castagni, ci aspettavano papà e mamma; le nostre manine erano particolarmente utili per riempire le ceste intrecciate, su misura per ciascuno di noi fratelli, dal papà con striscioline di nocciolo; facevamo a gara chi le riempiva per primo. Ed eravamo bravi; tanto che dopo il nostro passaggio avrebbe avuto vita grama la famigliola di ghiri che aveva la tana nel cavo del vicino vecchio melo. Era così che ci creavamo la nostra identificazione culturale, linguistica, etnica, religiosa e civile. Assimilando il nostro ambiente assieme al cibo quotidiano.

Ricordo con piacere quegli anni e nello stesso tempo mi rattristo nell’osservare la situazione odierna. Non che tutti i castagni e gli alberi da frutto siano scomparsi, sopraffatti dal bosco. No; sono scomparsi i contadini, i boscaioli, i piccoli allevatori di qualche bovino e di animali da cortile. Il bosco s’è mangiato prati e campicelli e oggi, che abbiamo strade asfaltate – ma antichi tratturi e sentieri invasi da cespugli e rovi –, parliamo di ricchezza verde e propagandiamo la nostra «natura incontaminata», la forestoterapia, la quiete ed il silenzio. La nostra natura, una volta, – comunque non contaminata da pesticidi, diserbanti, fertilizzanti chimici e quant’altro – nel suo piccolo, nonostante tutto, era anche generosa, senza che tuttavia potesse ripagare adeguatamente il sudore e la fatica di chi caparbiamente le chiedeva da vivere.

Oggi questi sono ricordi, sbiaditi dalla nostalgia per chi li ha vissuti e mezze favole da terzo mondo per ragazzi e giovani millennials. Non ci sono, o sono rari, figli e nipoti della mia generazione che raccolgono quel poco di frutti che spontaneamente i vecchi alberi producono ancora. Oggi l’aria buona e l’ambiente selvaggio richiamano, soprattutto in questo periodo, frotte di amanti della natura ed essi non disdegnano affatto raccogliere quel che trovano di interessante e di commestibile nei pressi delle strade, magari convinti che, come nel paradiso terrestre, tutto sia benedetto da Dio e a disposizione del re del creato.

C’è da dire, invece, che tutto il territorio delle Valli del Natisone è proprietà privata e che di norma come tale andrebbe rispettata. Aggiungerei poi che, dall’altro lato, può esser considerato un peccato lasciar marcire frutti che alla fine rimangono a disposizione di cinghiali e caprioli, visto che i proprietari non se ne occupano. Vero. E questo evidenzia un problema di fondo di questo nostro piccolo paradiso beneciano/sloveno – identificato come tale anche da norme statali –. Una comunità coesa, desiderosa di riscatto, bisognosa di autoidentificazione linguistica, etnica e culturale come è la nostra, sta andando pericolosamente incontro ad un destino inverso a quello che sta percorrendo la natura: essa si riprende il suo e la nostra comunità sta perdendo i propri connotati e le proprie forze vitali.

Mai sarebbe successo «ai miei tempi» che ladri, professionisti o meno, rubassero nei moderni frutteti locali sulle rive del Natisone una quantità cospicua di mele. Quando la socialità valligiana poggiava su solide basi, anche numeriche, la gente si conosceva e, volere o no, era solidale nell’autodifesa dei propri interessi in quanto coincidevano.

Oggi si discute di nuove forme di unione dei comuni montani che abbiano interessi, convenienze, problemi analoghi. Chissà che non si venga finalmente a valorizzare specificità non solo ambientali, ma anche linguistiche e culturali; un patrimonio che viene apprezzato più dagli estranei che da chi ci vive immerso.

Riccardo Ruttar

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