Ma chi educa gli educatori?_Kdo vzgaja vzgojitelje?

Le donne vittime. Perché non parlarne? Non si è ancora spento del tutto il clamore mediatico dell’efferato crimine di un fidanzato lasciato dall’amata, ritenuta da lui sua propria esclusiva proprietà, che, decidendo di conseguenza: o mia o di nessun altro, l’accoltella e butta via come spazzatura. Parlare d’amore in un caso simile quando si ripete centinaia di volte? Un sacrilegio, se l’amore è confuso col possesso, con la gelosia e l’arbitrio. D’altronde oggigiorno ciò che conta nella nostra cultura, distorta dall’edonismo e dall’individualismo, è il possedere, l’avere, l’ottenere con qualsiasi mezzo e ad ogni costo; quasi la pretesa di poter esercitare il diritto anche sulla persona con la quale si dichiara di voler vivere la propria vita. L’arbitrio come rivendicazione di una pretesa di libertà senza limiti. La risposta al rifiuto della libertà dell’altra, considerata proprietà esclusiva, si esplicita nella violenza, in qualsiasi forma e grado lo si voglia.

È vero che nella storia, certo non solo nel mondo islamico, ma anche in quello ebraico e cristiano, la donna ha patito un ruolo subalterno, oggi riconosciuto degradante e disumano, sebbene in ambito cristiano fosse mitigato dal precetto della «caritas», del dono e del rispetto reciproci.

Si cerca e ipotizza possibili antidoti alla violenza di genere, rivolgendo giustamente sguardi e pretese alla «scuola», in un’accezione generica come panacea a un male sociale senza considerare che essa stessa è gravemente malata e soprattutto dimenticando che la scuola è solo «una» delle agenzie di socializzazione nell’età evolutiva delle nuove generazioni. Avendola frequentata come docente, ho avuto modo di conoscerla internamente ed accorgermi che come ogni altra istituzione è fatta di uomini e donne, attori che già di per sé avrebbero dovuto essere educati, secondo le teoriche prospettive educatrici, al rispetto, alla solidarietà, alla comprensione ed alla collaborazione reciproci tra i sessi così come tra ogni essere umano. Parafrasando il vecchio detto attribuito al poeta romano Giovenale: «Quis custodiet custodes? – Chi custodisce i custodi? » potrei estenderne il senso a «Chicontrolla i controllori?» oppure, meglio: «Chi educa gli educatori?». Non sono domande prive di senso. Tutt’altro. Perché, sempre rimanendo nei detti della saggezza popolare, la botte dà il vino che ha. Ne consegue, in via logica, che per avere un buon vino occorre averne del buono nella botte. Ben altre sono oggi, molte, mutate e moltiplicate, le agenzie di socializzazione rispetto ai miei tempi neppur tanto lontani.

Nel mio mondo, quello sloveno delle mie Valli, nei miei ricordi la famiglia, il paese o il borgo, la chiesa – come centro nevralgico anche delle iniziative sociali –, il gruppo dei pari, il sistema informativo, il valore complessivo della cultura dei padri, lingua compresa, formavano un tutt’uno, omogeneo e securizzante. Oggi la responsabilità che viene attribuita alla scuola e magari pretesa da essa, mostra a tutti livelli i suoi limiti. Quanto a tutti gli altri fattori coinvolti nell’educazione delle nuove generazioni ne possiamo valutare l’incidenza partendo dal crescente fenomeno chiamato «nomofobia », un neologismo per indicare una dipendenza patologica da cellulare. Basta forse un reclutamento massiccio di psicologi? Non ne discuto l’importanza ma, parafrasando, potreidire che per quanto bravo sia il medico non basta una cura generica. Ci vuole ben altro. Per dire, esemplificando, che la diagnosi «patriarcato» nella sua genericità onnicomprensiva nasconde una crisi pandemica di valori umani più che cristiani.

Per quanto concerne le problematiche femminili, riguardando il mio mondo di un tempo, le Valli, quando ho avuto l’occasione di poter incontrare per le mie interviste decine e decine di donne, in prevalenza anziane, nei paesi della Benecia, in tutte le famiglie ho trovato donne capaci di virtù di sopportazione, di coraggio, di dedizione, di speranza e fiducia tali che realmente rappresentavano le tre colonne su quattro della costruzione famigliare e non ho notato ribellione, sudditanza, dipendenza esplicita dai maschi anche perché esse stesse erano il fulcro ed il nerbo portante anche dell’economia famigliare. Lo so, qualche marito e padre rasentava gli eccessi del marito di Delia, la protagonista del film «C’è ancora domani», non limitandosi agli insulti e a altre violenze, tuttavia l’ambiente complessivo nei paesi, dove tutti si conoscevano, era improntato ad una implicita solidarietà e reciproco sostegno e i valori che la cultura, tramandata da secoli, esercitavano ancora i loro benefici effetti sulla vita delle piccole comunità locali e sui singoli individui.

Nei miei tre quarti di secolo di vita rivedo i volti di donne tristi, depresse, esacerbate e rabbiose, ma soprattutto di spose e di madri capaci di sopportazioni eroiche; non succubi e raramente sottomesse. Se mariti e padri si spingevano all’eccesso, per lo più esasperati dalle difficoltà quotidiane, le affogavano nell’alcol con conseguenti perdite di controllo. C’è da dire che le cronache nere nei borghi locali raccontavano piuttosto di tanti suicidi di uomini e quasi mai di violenze estreme verso fidanzate, mogli o parenti.

S’intende che nel complesso delle problematiche sociali di allora non è da sottovalutare l’impronta sostanziale del magistero della Chiesa. I pulpiti evidenziavano, sì, la sottomissione al marito o al padre da parte delle donne, ma i princìpi cristiani erano ribaditi in ogni evento religioso. D’altronde era evidente che nelle difficili condizioni di lotta per la sopravvivenza, senza la donna, moglie, madre, zia o nonna, la vita difficilmente sarebbe rimasta vivibile. Tanto più che troppo spesso erano esse stesse a svolgere anche il ruolo del padre assente. Un mondo ormai perduto, cui segue uno privo di orientamento.

Riccardo Ruttar

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