Nel volume Il Friuli, Storia e società. Dalla caduta della Repubblica di Venezia all'Unità d'Italia (Udine 1998) lo storico Marcello Flores, docente di storia contemporanea e storia comparata alla facoltà di Lettere dell’Università di Siena, a proposito dell’annessione degli sloveni del Friuli all’Italia scrive: «La totale mancanza di coscienza di un ‘problema sloveno’, se in alcuni casi lasciava trapelare l’ideologia discriminatoria che era analoga a quella riservata ai braccianti, agli operai, ai contadini incolti, spesso era frutto di una adesione alle più semplificate teorie sulle nazionalità allora in auge, che riconoscevano ‘dignità’ nazionale solo ad alcuni popoli e ad alcune tradizioni politico-culturali che si risolvevano a volte in un acritico appiattimento sulle stesse posizioni dell’Impero asburgico». (p. 183).
Gli sloveni erano considerati, dunque, a livello di una categoria sociale di infimo livello; erano visti come una malattia da guarire e da estirpare prima che potesse aggravare e diffondere; erano trattati come una razza inferiore di fronte ad una civiltà, quella latina, e ad una lingua, quella italiana, considerate superiori. Ecco allora la massiccia ‘cura’ per guarire, redimere, risollevare le sorti di questi ‘selvaggi’ che vivevano nelle tenebre dell’inciviltà e parlavano «un gergo barbaro di una lingua barbara», come si legge nel quotidiano Fanfulla del 25 luglio 1884.
Ma la politica di assimilazione degli sloveni del Friuli, portata avanti dall’Italia risorgimentale, non ebbe gli effetti desiderati. Anzi, i risultati furono contrari alle attese delle autorità, perché la politica di alfabetizzazione portò alla diffusione della stampa slovena da parte dei sacerdoti locali. E di nuovo Musoni è costretto a constatare che «la lingua dei libri si intende poco o nulla, ragione per cui si legge poco in lingua italiana, si legge invece assai più, come vedremo, in slavo» (Musoni, cit., p. 9).
È costretto ad intervenire perfino il regio commissario di Udine, il noto politico ed economista Quintino Sella, che nel 1869 inviava una circolare segreta ai sindaci delle valli del Natisone, nella quale scriveva: «Vi sono ben note le raccomandazioni del Governo circa l’uso della lingua nazionale e a tale scopo l’ispettore scolastico ha recentemente visitato il mandamento. Più di qualche nemico della nostra indipendenza, risvegliando criminose idee panslaviste, cerca qualsiasi espediente, per permettere in questa zona ancora l’uso della lingua slava, la quale ricorda la vergognosa presenza dello straniero in Italia. Si diffondono tra le popolazioni stampati e catechismi segreti e datocchè il governo è interessato, affinché si blocchino immediatamente sì fatte mene ostili, e che i responsabili vengano puniti, vi ammonisco, state attenti, visitate le scuole, dove è severamente ordinato l’insegnamento della lingua italiana. Se verrete a conoscere che qualche maestro avrà l’arroganza di usare detta lingua, comunicatemelo, affinché tale persona venga allontanata immediatamente». (P. Petricig cit., p. 50, riporta la notizia attinata da A. Gabršček, Goriški Slovenci, Ljubljana 1934)
In realtà nella loro politica di assimilazione le autorità italiane avevano fatto i conti senza l’oste. Prima di tutto senza la popolazione locale, caparbiamente radicata nella propria cultura, nelle tradizioni, soprattutto quelle religiose, e poi, appunto, senza i sacerdoti locali i quali, oltre ad essere le guide spirituali, erano gli «intellettuali organici», i veri leader della comunità.
Per questo motivo erano invisi alle autorità politiche che in essi vedevano gli oppositori alla politica di assimilazione degli sloveni del Friuli. In realtà nella Slavia l’anticlericalismo risorgimentale si fece sentire anche prima dell’annessione al Regno dei Savoia. I locali oppositori della Chiesa e del clero sloveno, sostenuti da quelli di Cividale, tentarono prima di impedire poi di distogliere il popolo dal concorrere alla missione predicata dal gesuita p. Antonio Banchig di Tarcetta (1814 – 1891) a San Pietro degli Slavi nel mese di giugno del 1865 (cfr. G. Banchig, P. Antonio Banchig gesuita di frontiera, Cividale 2007).
Nelle valli del Natisone i preti sloveni avevano istituito una scuola «parallela», più efficace, perché più aderente alla realtà e alla cultura della popolazione. In nome della missione universale della Chiesa, del resto perseguitata da certa politica risorgimentale, avversavano il programma di assimilazione delle nuove autorità italiane, e continuavano nella secolare tradizione di predicare, insegnare il catechismo, pregare e cantare in sloveno.
Uno dei rappresentanti più autorevoli del clero sloveno fu don Pietro Podrecca (San Pietro degli Slavi 1822 — Rodda 1889), prima entusiasta dell’Italia, per la quale aveva composto il canto «Predraga Italija, preljubi moj dom» (Carissima Italia, amatissima mia casa), poi severo suo oppositore: deluso per la politica antislovena, nel 1871 scrisse la poesia «Slovenija in njena hčerka na Beneškem» (La Slovenia e la sua figlia in terra veneta), nella quale, riferendosi alla lingua slovena, si lamenta che essa non è usata negli uffici né a scuola e trova rifugio solo nelle chiese.
I preti sloveni approfittarono della alfabetizzazione, anche se limitata, della popolazione per diffondere catechismi e libri sloveni. Già nel 1869, tre anni dopo l’annessione, su iniziativa dello stesso don Pietro Podrecca e del vicario di San Pietro al Natisone, don Michele Mucig, venne dato alle stampe a Gorizia il catechismo in sloveno «Katekizem ali keršanski katoljški nauk», con l’imprimatur dell’arcivescovo di Udine, mons. Andrea Casasola (1863 — 1884).
Oltre i catechismi i sacerdoti diffondevano i libri della società di Sant’Ermacora (Družba svetega Mohorja) di Klagenfurt — Celovec. Ogni anno questa pubblicava una serie di volumi che trattavano di agricoltura, religione, storia, scienza e medicina popolare ed inoltre manuali di agricoltura e di allevamento del bestiame. Erano scritti in una lingua semplice e comprensibile anche alla gente della Slavia. Nel 1871, cinque anni dopo l’annessione all’Italia, a San Pietro gli associati alla Mohorjeva družba erano appena 9, nel 1875 11 a San Pietro e 2 a Monteaperta; negli anni successivi si ebbe una rapida crescita: nel 1882 erano 112, 139 nel 1891, 168 nel 1893, 181 nel 1894, 198 nel 1895. Il numero degli iscritti raggiunse le 258 unità nel 1909, una cifra considerevole se si tiene conto della bassa scolarizzazione, dell'elevato numero degli analfabeti, del costo dell'abbonamento e della politica apertamente contraria alla diffusione della stampa slovena. Il fenomeno preoccupò le autorità italiane; il deputato friulano Elio Morpurgo (1858-1944) interessò della questione la Camera dei deputati, poiché ravvisava nella rete dei soci della Moho- rjeva un movimento antiitaliano.
Musoni stesso deve ammettere che la gente comprende «quanto basta la lingua slovena, anche scritta, e perché poco dissimile dal dialetto e sopra tutto in grazia del clero, il quale, avendo cominciato da alcuni anni a questa parte a far uso nelle chiese di un linguaggio più corretto di quello che abitualmente dal popolo si parli, ha convertito il pulpito in una vera cattedra di lingua, praticamente e con molto profitto insegnata. Ecco perché, da quando il livello di cultura si è alquanto innalzato anche in questi paesi, per effetto del decrescente analfabetismo, a quelle italiane si preferisce l’acquisto di pubblicazioni slave e la società di S. Ermacora si va facendo sempre più numerosi aderenti anche in Friuli». (F. Musoni, cit., p. 11)