Chi conosce Ješičje/Iesizza, un paesino fra i 150 nuclei e centri più o meno abitati nelle Valli del Natisone? Sarà certamente più noto Kravar/Cravero, località cui Ješičje faceva riferimento come parrocchia e scuola. E lassù, a quasi un chilometro di mulattiera, andavamo noi, bimbi e ragazzini, per sostituire la «nostra» lingua a quella del «cittadino italiano», l’unica degna di chiamarsi tale. Per un giorno, la «nostra lingua», quella dei nostri predecessori, padri, nonni e bisnonni, ha avuto l’occasione per mostrarsi quale sia e quanto possa comunicare a chi ancora la possiede. Se potessero riunirsi nel paesino tutti coloro che vi hanno avuto origine e radici di sangue, probabilmente si riempirebbero di volti e di ricordi case e vicoli, piazzette e cortili, la Gorica, quell’ampio piazzale con al centro la doppia fontana. Non manca ai compaesani l’abitudine di richiamarne tanti in diverse occasioni lungo l’anno e, per questa occasione, non si sono fatti pregare.
Domenica 26 giugno, tanto per evidenziare la vitalità della gente del posto, bisognosa e desiderosa di ritrovarsi in festa in iniziative di interesse comune, si sono fatti in quattro. Si trattava della presentazione al pubblico invitato, in particolare ai compaesani, di un libro, edito di recente, di una raccolta antologica di brani, scritti e redatti nel linguaggio sloveno originario, vivo e vivace della comunità slovena delle Valli. L’autore è il compaesano Jur/Giorgio Ruttar, della famiglia «Zad’tih». Si tratta del libro «Ješiške zgodbice – Dikla Tina» (Fatterelli di Jesizza – Tina, la serva) pubblicato dalla Società cooperativa «Most». È una raccolta tra i circa 240 brani scritti da Jur per la rubrica «Ješiške zgodbice» pubblicati dal 2011 sul quindicinale Dom. A mio avviso, per la genuinità del lessico, per la spontaneità e la vivacità del racconto, per l’aura quasi fiabesca in cui i fatterelli coinvolgono il lettore, il libro diventa un significativo monumento a quel nostro mondo linguistico e culturale che ha caratterizzato la storia degli sloveni delle Valli.
È vero che molti avrebbero voluto che venisse affiancata al testo sloveno una traduzione in italiano, ma sempre di una traduzione si tratterebbe e, comunque, non potrebbe mai rendere il senso profondo dei racconti, senso che va oltre il lessico e far cogliere le valenze emotive del linguaggio del cuore. Varrebbe comunque, evocativo e simpatico, per coloro che con il dialetto sloveno avessero perso dimestichezza; ma varrebbe comunque per uno sforzo di memoria e per un piccolo bagno emotivo il ritorno a immagini, episodi, situazioni di vita vissuti una volta e oggi irripetibili.
È un’esperienza da me vissuta in diretta nei lunghi pomeriggi trascorsi con anziani, donne e uomini che mi accoglievano in casa disposti a confidare ricordi ed esperienze di vita, poi da me trascritti nelle pagine del Dom a partire dal marzo del 2004 al febbraio del 2010. Visitai oltre 130 nuclei e centri abitati dei sette comuni delle Valli del Natisone e altrettante famiglie e persone, spesso descrivendovi le specificità, ma soprattutto fermandomi nelle case, registratore in mano, a chiacchierare con anziani, nonne, carichi di età e di memorie, di esperienze e spesso di virtù eroiche. La chiave magica, quella che mi apriva tutte le porte e la disponibilità al dialogo era l’approccio linguistico, il loro, quel mondo di vita vissuta che si traduce nella lingua del cuore, della tradizione secolare, della confidenza non concessa all’estraneo. Cadevano le diffidenze, il dialogo scorreva vivace con la nonna Pia Štokova di Seucè custode dell’unico bimbo del paesino, con Teresa Roščova di Škrutove, materna e sollecita assistente nella scuola locale, con Lina Varhunščakova o Teresa Juracova di non so più quale paese delle valli. Immagini e memorie, ognuna meritevole di un libro, degna di essere ricordata in pagine forse meno drammatiche di quelle sconvolgenti scritte da Jur Zad’tih, in «Dikla Tina». Oggettivamente, per essermi battuto pervicacemente per oltre 40 anni per la rivalutazione, per la valorizzazione, per l’uso in ogni forma, luogo e momento di questa nostra lingua come mezzo e strumento di identità, di fronte alla massificazione e spersonalizzazione individuale e collettiva di oggi, mi è di sconforto constatare lo smacco dell’indifferenza dei più, anche di coloro che dicono di difenderla questa nostra lingua, ma se ne vergognano.
Il Dom e la cooperativa Most, e, perché no, io con mio fratello, abbiamo voluto dimostrarne la validità, come un patrimonio che non vuole e non deve circoscriversi in gruppuscoli di eletti, di poeti e cantautori, ammantarsi di folclore da pow wou dei nativi americani, ma rendersi capace di ridare vita e dignità a questo nostro piccolo popolo in declino. Purtroppo anche il migliore Picolit, annacquato e tagliato, disperde il suo aromatico sapore. Va bevuto e gustato genuino.
Il Picolit di Iesizza/Ješičje
Chi conosce Ješičje/Iesizza, un paesino fra i 150 nuclei e centri più o meno abitati nelle Valli del Natisone? Sarà certamente più noto Kravar/Cravero, località cui Ješičje faceva riferimento come parrocchia e scuola. E lassù, a quasi un chilometro di mulattiera, andavamo noi, bimbi e ragazzini, per sostituire la «nostra» lingua a quella del «cittadino italiano», l’unica degna di chiamarsi tale. Per un giorno, la «nostra lingua», quella dei nostri predecessori, padri, nonni e bisnonni, ha avuto l’occasione per mostrarsi quale sia e quanto possa comunicare a chi ancora la possiede. Se potessero riunirsi nel paesino tutti coloro che vi hanno avuto origine e radici di sangue, probabilmente si riempirebbero di volti e di ricordi case e vicoli, piazzette e cortili, la Gorica, quell’ampio piazzale con al centro la doppia fontana. Non manca ai compaesani l’abitudine di richiamarne tanti in diverse occasioni lungo l’anno e, per questa occasione, non si sono fatti pregare.
Domenica 26 giugno, tanto per evidenziare la vitalità della gente del posto, bisognosa e desiderosa di ritrovarsi in festa in iniziative di interesse comune, si sono fatti in quattro. Si trattava della presentazione al pubblico invitato, in particolare ai compaesani, di un libro, edito di recente, di una raccolta antologica di brani, scritti e redatti nel linguaggio sloveno originario, vivo e vivace della comunità slovena delle Valli. L’autore è il compaesano Jur/Giorgio Ruttar, della famiglia «Zad’tih». Si tratta del libro «Ješiške zgodbice – Dikla Tina» (Fatterelli di Jesizza – Tina, la serva) pubblicato dalla Società cooperativa «Most». È una raccolta tra i circa 240 brani scritti da Jur per la rubrica «Ješiške zgodbice» pubblicati dal 2011 sul quindicinale Dom. A mio avviso, per la genuinità del lessico, per la spontaneità e la vivacità del racconto, per l’aura quasi fiabesca in cui i fatterelli coinvolgono il lettore, il libro diventa un significativo monumento a quel nostro mondo linguistico e culturale che ha caratterizzato la storia degli sloveni delle Valli.
È vero che molti avrebbero voluto che venisse affiancata al testo sloveno una traduzione in italiano, ma sempre di una traduzione si tratterebbe e, comunque, non potrebbe mai rendere il senso profondo dei racconti, senso che va oltre il lessico e far cogliere le valenze emotive del linguaggio del cuore. Varrebbe comunque, evocativo e simpatico, per coloro che con il dialetto sloveno avessero perso dimestichezza; ma varrebbe comunque per uno sforzo di memoria e per un piccolo bagno emotivo il ritorno a immagini, episodi, situazioni di vita vissuti una volta e oggi irripetibili.
È un’esperienza da me vissuta in diretta nei lunghi pomeriggi trascorsi con anziani, donne e uomini che mi accoglievano in casa disposti a confidare ricordi ed esperienze di vita, poi da me trascritti nelle pagine del Dom a partire dal marzo del 2004 al febbraio del 2010. Visitai oltre 130 nuclei e centri abitati dei sette comuni delle Valli del Natisone e altrettante famiglie e persone, spesso descrivendovi le specificità, ma soprattutto fermandomi nelle case, registratore in mano, a chiacchierare con anziani, nonne, carichi di età e di memorie, di esperienze e spesso di virtù eroiche. La chiave magica, quella che mi apriva tutte le porte e la disponibilità al dialogo era l’approccio linguistico, il loro, quel mondo di vita vissuta che si traduce nella lingua del cuore, della tradizione secolare, della confidenza non concessa all’estraneo. Cadevano le diffidenze, il dialogo scorreva vivace con la nonna Pia Štokova di Seucè custode dell’unico bimbo del paesino, con Teresa Roščova di Škrutove, materna e sollecita assistente nella scuola locale, con Lina Varhunščakova o Teresa Juracova di non so più quale paese delle valli. Immagini e memorie, ognuna meritevole di un libro, degna di essere ricordata in pagine forse meno drammatiche di quelle sconvolgenti scritte da Jur Zad’tih, in «Dikla Tina». Oggettivamente, per essermi battuto pervicacemente per oltre 40 anni per la rivalutazione, per la valorizzazione, per l’uso in ogni forma, luogo e momento di questa nostra lingua come mezzo e strumento di identità, di fronte alla massificazione e spersonalizzazione individuale e collettiva di oggi, mi è di sconforto constatare lo smacco dell’indifferenza dei più, anche di coloro che dicono di difenderla questa nostra lingua, ma se ne vergognano.
Il Dom e la cooperativa Most, e, perché no, io con mio fratello, abbiamo voluto dimostrarne la validità, come un patrimonio che non vuole e non deve circoscriversi in gruppuscoli di eletti, di poeti e cantautori, ammantarsi di folclore da pow wou dei nativi americani, ma rendersi capace di ridare vita e dignità a questo nostro piccolo popolo in declino. Purtroppo anche il migliore Picolit, annacquato e tagliato, disperde il suo aromatico sapore. Va bevuto e gustato genuino.
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