I sette nani non hanno fatto un gigante_Iz sedmih palčkov ni nastal velikan

«La lingua batte dove il dente duole». Per cercare di lenire il dolore il cervello ordina alla lingua di tastare il punto dolente. Quest’espressione viene usata per indicare un qualcosa che, puntualmente, ritorna a toccare un tasto che non vorremmo, ma volenti o nolenti, si ripropone da sé. Quando il disagio è cronico, il malessere si diffonde su tutto l’organismo a meno che non intervenga un anestetico adeguato ad abolire o mitigare la sensibilità al dolore.

Questa banale citazione proverbiale per accostarmi ad un argomento, la demografia locale, che per me è stato un assillo già dai miei esordi lavorativi come insegnante elementare in alcune delle scuole lungo lafascia confinaria.

Mi riferisco a tempi lontani, oltre 50 anni fa e i decenni seguenti, quando ho fatto da ricercatore nell’Istituto sloveno di ricerche – Slovenski raziskovalni Inštitut. E già allora evidenziavo, con rammarico ed una buona dose di rabbia, l’ecatombe demografica dei paesi della Slavia. «Sette nani» – come mi scappò di dire dei nostri comuni valligiani – sono un’immagine significativa di cosa possa significare l’emarginazione, l’abbandono a se stessi, l’indifferenza ai problemi reali di un piccolo popolo, reo d’essere etnicamente e linguisticamente diverso e per ciò etichettato come «indesiderato » già dalla sua entrata nel Regno italico oltre 150 anni fa. Ricordo che stavo preparando la mia tesi di laurea studiando sul campo le problematiche psicosociali dell’area slovena e rimasi colpito dai dati Istat che ci riguardavano da vicino.

Il censimento del 1921, a tre anni dal primo conflitto mondiale, aveva registrato nei nostri sette comuni 17.267 residenti nonostante l’enorme numero di caduti nel corso della guerra. Mentre l’Italia cresceva fornendo baionette al Regime littorio, le Valli si ridussero di numero, tuttavia al censimento del 1951 ci contarono per 16.195 residenti con la perdita di un migliaio di abitanti. Ma, mi chiedevo con sconcerto, cosa è successo che nel corso di 20 anni, tempo in cui l’Italia si riprendeva in tutti i settori dopo la guerra, da noi la popolazione si riducesse a 9.649 residenti? Meno 6.546 abitanti. Il che significa più di quattro valligiani ogni dieci se ne erano andati. Dove? Per il mondo, a iniziare dalla pianura friulana. Una botta da stordire, altro che un mal di denti! Evviva la «Repubblica» che sbandierava nella sua Costituzione articoli santificatori come il 6 e il 2 e il 3.

Non li cito per intero per pudore: tutti uguali come cittadini e cura delle minoranze. Ma finirà questo collasso, mi sono detto. La rinascita italiana lambirà, – se non altro come le briciole cadute dalla tavola imbandita del biblico Epulone – anche l’estremo lembo del confine orientale sacrificato ai sensi della Cortina di ferro. Qualcuno si accorgerà del disagio, pensavo l’ingenuo. Il dente duole nella Slavia. Perché nessun medico antimiseria? Di fatto l’analgesico lo prende il «dottore», mette gli occhiali scuri, i tappi nelle orecchie: lo Stato dibatte sulla definizione di ipotetici diritti di Paleoslavi, Veteroslavi, di popolo italianissssimo (Andreotti) più italiano degli italiani medesimi, tali per diritto divino. Di noi sloveni di lingua si spargevano voci di manovre di autosvendita territoriale alla Jugoslavia.

Sarà finita la mistificazione sulla nostra appartenenza etnica e sulla nostra identità constatando che la Slovenia è entrata nell’area di Schengen! Pensa ancora l’ingenuo. No. Noi siamo speciali, perché noi il nemico degli «sloveni », cioè di noi stessi, purtroppo ce lo creiamo e foraggiamo da noi come un cancro al nostro interno. Colpiti da una malattia nota come sindrome di Stoccolma, diventiamo vittime che solidarizzano con il proprio aggressore. Come non bastasse l’infingardo avversario esterno. Così disunità e conflittualità interna ci hanno impedito perfino di rivendicare efficacemente i nostri diritti umani, diritti costituzionali teoricamente garantiti a tutti.

Solo giunti a cavallo del nuovo millennio una mano fu tesa con il riconoscimento ufficiale della nostra esistenza (legge di tutela 38-2001) e il solito ingenuo si disse: finalmente! Da ora qualcosa cambierà, si sono accorti di noi, abbiamo un nome ed un’identità. Da ora si fermerà l’emorragia che sfinisce la nostra forza vitale; siamo sulla strada della rinascita; i paesi torneranno a vivere, i davanzali delle case a colorarsi di fiori anche lassù nei paesini di Drenchia, Grimacco, Savogna e via di seguito, fin su oltre Resia ed il Canin, fino ai tre confini di Tarvisio.

Illusione. Per definire lo stato dei fatti odierni non intendo disquisire su particolari demografici di numero di maschi e femmine, di stato civile, di classi d’età, di famiglie e loro consistenze, di redditi e tributi, di servizi essenziali e quant’altro. La dice lunga, con pacata chiarezza un semplice paio di dati, tanto per comprendere come sia stato possibile ridurci ai 5.167 residenti (01/01/2020). Natalità e mortalità sono parametri inequivocabili e questi, riguardo ai nostri sette comuni, ci dicono quanto segue. Dal primo giorno del 2002 all’ultimo del 2019, in 18 anni, su tutto il nostro territorio sono stati registrati solo 722 nati vivi. Ma al confronto col numero dei morti non credo di poter trovare altrove una proporzione così marcata avendone assommati ben 1.797. Altro che ricambio generazionale! Sempre meno varrà la pena spendere soldi per un piccolo popolo come il nostro nell’inconfessabile aspettativa che il Covid ne confermi il processo involutivo.

Riccardo Ruttar

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