Ho letto con particolare interesse le due pagine 8 e 9 che si affacciano nel nostro quindicinale Domnel secondo numero del luglio scorso, perché la lettura delle singole notizie ha riattivato pensieri, sentimenti e riflessioni mai sopiti in relazione alle tante problematiche del territorio e della gente cui appartengo da sempre: le Valli della Slavia. Potrei essere ascritto alla categoria dei «pendolari » di cui scrive Bepo Qualizza, di quegli sloveni che per varie ragioni hanno lasciato il proprio ambiente valligiano per mete alternative, i quali spesso e costantemente ritornano al loro paesello, alla casa natia, per perpetuarne non solo il valore affettivo, ma anche il valore materiale.
Potrebbero essere questi «pendolari alla rovescia» quelli più profondamente legati alle proprie radici, quelli che il pendolarismo l’hanno vissuto ben prima, dai tempi in cui si cercava lavoro e benessere andando e ritornando,transitando su quel fatidico Ponte San Quirino. Ponte che in qualche modo potrebbe essere visto come limite di chiusura ed apertura di due mondi linguistici e culturali adiacenti e contemporaneamente misti. «Do’ par Muoste», veniva ed è chiamato dai locali, senza altre specificazioni, ponte per antonomasia, emblema, simbolo di entrata ed uscita da un mondo ben definito, ritenuto speciale sebbene non separato e chiuso in se sesso. Altro, rispetto ai numerosi ponti e ponticelli che permettevano ai valligiani di intessere relazioni tra i 150 nuclei e centri abitati della tradizionale Slavia.
Se per oltre cent’anni il Ponte avesse potuto contare l’andare e venire della gente valligiana avrebbe annotato con rammarico la progressiva, inesorabile diminuzione dei rientri rispetto alle uscite. Un pendolarismo storico per così dire asincrono, che contava più oscillazioni nell’andare che nel venire. E andavano via i giovani, soprattutto le giovani; molti per non tornare e più, rari, carichi di nostalgia, per tornare, da anziani, col desiderio di concludere i giorni nei luoghi dei primi affetti d’infanzia. Di questi scrive Qualizza, dei nostalgici che intendono dimostrare e dimostrano ancora attaccamento a quella casetta, al borgo ed all’ambiente che in tempi ormai lontani davano loro vita e ragione di vivere.
In effetti è un vero peccato che interi paesini si ritrovino aggrediti dalla natura invadente, che fabbricati curati e magari ristrutturati dopo gli eventi sismici di quasi mezzo secolo fa rischino di diventare ruderi da abbattere. Ma seconde case di cittadini non residenti, quindi gravati da Imu, Tari e quant’altro, considerati estranei dalle normative vigenti. Giuridicamente giusto, umanamente e civilmente meno in considerazione del loro apporto all’ambiente fisico e relazionale.
Sono i sette comuni delle valli del Natisone, che mi fanno pensare ai «nani» dei fratelli Grimm. Parafrasando la favola, a mio parere manca una Biancaneve che li possa tenere riuniti, solidali, con programmi, finalità e progetti comuni.
Eravamo in 16.195 i valligiani quando io compivo 4 anni (1951), le case senza servizi, letamai nei cortili, strade simili a torrenti, mulattiere e sentieri percorsi per lo più a piedi, fatica e lavoro improbi. Ma valli e monti erano tutti, all’occhio, un giardino, coltivato da un piccolo esercito di «nani» laboriosi. Era ovvio che bisognava resistere e darsi da fare, specie in assenza di prospettive in loco; era divenuto necessario cercarle altrove.
Oggi è diverso. Per i nostri monti e valli è tornato il regno indiscusso della Natura abbandonata al suo predominio; è cresciuto il bosco e dei campicelli terrazzati coltivati con cura e dei prati d’erba per le fienagioni è rimastopoco più che un ricordo. Dove vivevano un secolo fa 17.640 persone (censimento 1921) oggii residenti non raggiungono la cifra di 5.000, suun territorio che già quasi cinque secoli fa,nell’anno 1557, la Repubblica di Venezia ne aveva contati 5.064. Per allora tantissimi, rispetto alla popolazione complessiva della Serenissima; drammaticamente pochini oggi ed ancora tendenti a ridursi.
Per questo appaiono provvidenziali estemporanee trovate come quella della Cooperativa «Cramars» di Tolmezzo sponsorizzata dal comune di Savogna. «Vieni a vivere e lavorare in montagna». Sì, certo. Io, il solito sognatore nostalgico del mio mondo sloveno, avrei preferito, uno slogan come: «Beneciano, torna a vivere e lavorare in montagna». Figlio, nipote, pronipote… tu che hai sangue, anche misto, beneciano, ritorna. La comunità amministrative della Slavia unita, compatta, solidale e determinata si impegna a darti una mano; estorcerà alle autorità regionali e statali quanto necessario per poter far riviverequesta comunità etnica e linguistica che, per la sua storia, per il suo profilo sociale e culturale merita di sopravvivere e svilupparsi nella suaidentità per riprendere quel posto che la storia le ha assegnato e mantenuto per un millennio e mezzo. Ed è per questo che preferirei leggere sotto un unico elenco, in maiuscolo bianco in campo blu, – vedi pag. 8 del Dom 31.7.24 – non solo nove ma addirittura 18 nomi, quelli dei Comuni già dichiarati «sloveni» (legge 382001) e lì esposti in un unico testo le note decisionali delle Amministrazioni come una, viste in un progetto globale valido per tutti gli ambiti territoriali nella prospettiva di una gestione unitaria ed unica. «Taglio delle piante in prossimità delle strade; acquisto materiale antinfortunistico; libri agli scolari; messa in sicurezza delle frane; recintati i campi di calcetto; raccolta dei rifiuti ingombranti; approvata convenzione col Consorzio… e quant’altro in uno sforzo unitario di campanili che suonino in contemporanea la stessa melodia di un risveglio pasquale. Per chiamare a raccolta la volontà e l’impegno di tutti quelli che hanno un retaggio comune, anche se disperso nel mondo.
Non so se l’iniziativa di «Cramars » otterrà seguito e quanto, ma se lo ottenesse vedrei approssimarsi una Benecia economicamente più ricca magari significativamente più numerosa, ma la comunità tradizionale etnicamente e linguisticamente in piena eutanasia identitaria. Un’identità slovena nominale poco più che folcloristica. «Venite, chiunque siate. C’è un territorio da ricolonizzare, i pochi autoctoni vi attendono a braccia aperte. Non importa chi, da dove e perché, tanto neppure noi sappiamo chi siamo!».