«Prima sono nato slavo». Un’affermazione pagata da don Iaculin a caro prezzo

 
 
La figura di don Giuseppe Iaculin, alias Joško Jakulin — come si è presentato ai fedeli sul santino della sua ordinazione sacerdotale che riporta la data 9-16 VII 1944 — si delinea nella sua complessità già da questo dato. Così come si scompone se la guardiamo come parroco di Cravero e, in ambiti più vasti, come operatore pastorale/predicatore, direttore spirituale/consigliere/psicologo famigliare. In effetti più di qualche contraddizione si potrebbe riscontrare nel suo percorso umano e fatte ormai le rituali esequie, è facile ascoltare, soprattutto da coloro che l'hanno avuto come educatore, parole, commenti e considerazioni fortemente contrastanti.
Probabilmente chi ha avuto a che fare con don Iaculin al di fuori dell'ambito piuttosto ristretto della parrocchia ne valuta la memoria in modo diverso da coloro che ne hanno condiviso la quotidianità nei 65 anni dal suo insediamento nella canonica di Cravero. Insieme a lui, o per lo meno sotto la sua energica conduzione religiosa e civile, le comunità paesane che facevano capo alla parrocchia hanno affrontato la durezza degli anni del dopoguerra. Anni difficili, di cambiamenti epocali, che mettevano in crisi giorno dopo giorno molti dei principi religiosi ed etici a cui Iaculin richiamava con veemenza i genitori troppo permissivi. Ciò che la mia generazione ricorda molto bene è la pedagogia della rigidezza e del castigo riassunta nelle parole «drenuova mast» (unguento del corgnolo) spesso citata nelle prediche. Erano tempi difficili per la Slavia, con famiglie numerose e povertà cronica. Nondimeno Iaculin realizzò il sogno di una chiesa più capiente con l'immane sacrificio di tutti: residenti ed emigranti.
Mentre il resto del mondo avanzava culturalmente ed economicamente, la Slavia languiva. La gente, sopraffatta da un'economia arcaica priva di sbocchi e dal disagio della propria crisi identitaria, fuggì all'inedia in cerca di un destino meno gramo. E Iaculin, così come i suoi confratelli, assistette quasi impotente allo sfacelo demografico, e non solo.
Da sempre incombeva sul territorio il problema linguistico, fonte di veleni politici, di diatribe interne alla chiesa, di scontri furibondi tra fazioni, il tutto condito dal clima avvelenato delle guerra fredda, con la «cortina di ferro» sull'uscio di casa. L'ha pagata cara «Joško Jakulin» quell'affermazione di identità. Gli fu rinfacciata come infamante la constatazione: «Prima sono nato “slavo” e poi, col battesimo, sono diventato cristiano». Per questo di difficile comprensione, e contraddittorio, rimane ancora oggi l'ultimo periodo di don Giuseppe, da quando il suo impegno con la comunità parrocchiale si era ridotta alla messa domenicale o poco più. Credo fosse stato il suo anticomunismo viscerale a mettere in crisi il senso della sua appartenenza slovena così solennemente affermata all'inizio della sua missione. Il tentativo di svuotare di senso l'assioma democristiano, che collegava in sequenza le definizioni «sloveno-comunista-titino-antiitaliano», lo portò a negare l'appartenenza «slovena» della comunità della Slavia e a ricercare una qualche identità alternativa. E ci si mise d'impegno producendo il discusso volume «Gli slavi del Natisone» per dimostrarne l'ovvia identità generica di «slavi», negandone l'appartenenza «slovena». Gli ultimi anni della sua vita furono tesi allo spasimo per dimostrare l'indimostrabile e per trovarne sostenitori soprattutto nel folto sottobosco degli eredi di Gladio.
Ma non è mia intenzione polemizzare sulla questione linguistica. Tutt'altro. Vorrei invece ringraziare pubblicamente don Iaculin, il mio parroco, e le ragioni della mia riconoscenza sono legate proprio ai contenuti etnici e linguistici della sua opera pastorale.
Torno ai miei anni giovanili, quando c'erano bacchettate per le dita e multe per chi, a scuola, parlava «sloveno». Don Giuseppe faceva catechismo in «sloveno», predicava, cantava in sloveno, con quella sua voce forte un po' stonata, aiutato in ciò dal chierico Mario Qualizza, oggi vicario foraneo a S. Pietro al Natisone..
E non ha smesso, don Joško Jakulin, a pregare e cantare in sloveno, ogni domenica, così come aveva predicato, coraggiosamente, da «novomašnik» il 16 luglio del 1944, alla prima messa. A lui va ascritto il merito d'aver dato alle stampe il «Vangel Svetega Mateuža» (vangelo secondo Matteo) tradotto nel linguaggio comprensibile ai suoi fedeli. Non mi chiedo neppure come Jaculin abbia definito quel linguaggio: slavo, natisoniano o altro; certo è che, magari ce ne fossero tanti di questi scritti, tante di queste traduzioni… usate da preti e laici, senza remore e falsi pudori. Comunque la si chiami è la lingua dei canti che lui ci ha insegnato, presi da libri stampati a Trieste, Klagenfurt o Lubiana, è la mia lingua, la lingua della Slavia.
Vi era, dunque, una profonda coerenza di fondo tra Joško Jakulin del 1944 e il Giuseppe Iaculin posteriore. Il suo primo libro non fu che l'esteriorizzazione del profondo disagio che prova lo sloveno delle valli di fronte al problema della sua identità etnica e linguistica. L'ho provato anch'io e neppure io sono riuscito a superarlo in modo equilibrato. E qui vorrei raccontare un'esperienza particolare. Circa trent'anni fa ero a Lubiana, a messa nel duomo della città. I tre canti intonati dai fedeli durante il rito, non solo non mi erano estranei, ma ne conoscevo musica e testo. La sensazione provata era sconvolgente, mai provata prima nei miei viaggi in «Jugoslavia». Josip Broz Tito era morto appena da qualche mese. La consapevolezza che, lì, a Lubiana stavo cantando gli stessi canti che io avevo imparato da piccolo nella mia parrocchia di Cravero, mi dava un senso di vertigine e smarrimento. Mi sconvolgeva, profondamente, la scoperta di una affinità, tutt'altro che epidermica e superficiale, con i fedeli di quel mondo «pauroso» che rappresentava per me la Jugoslavia di Tito. Là, oltre il famigerato confine, mi ero trovato, per il tempo di una messa, come a casa. Ed ho imparato una lezione che mi è servita per la vita. Una cosa mi era parsa evidente: mi trovavo in quella situazione per «colpa» di «Jakulin».

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