Nelle valli sognando la macchina del Tempo
V Benečiji sanjajoč na časovni stroj
La Benecia, in particolare le Valli del Natisone, dà oggi, in un certo senso, l’immagine di un mistero da scoprire man mano che vi si addentra lungo i percorsi obbligati delle strade che si diramano a ventaglio dalla doppia curva a Z al Muost/Ponte S. Quirino.
Le vallate che affiancano il Natisone, quella dell’ Oborna, del Kosca, dell’Arbeč nascondono il loro fascino sotto un costante e compatto manto verde e solo nei fondivalle si avvertono i colori dei centri abitati, le sagome degli opifici ed i ritagli di campi coltivati e frutteti. Sui versanti dei monti occhieggiano qua e là macchioline di paesini persi nel verde e sui cucuzzoli sprazzi bianchi di chiesette e campanili.
Chi vi si avventura per la prima volta per salire ai paesi in quota senza una meta prescelta, verosimilmente si affida al navigatore dell’auto o segue semplicemente le indicazioni agli incroci.
Per cercare e trovare che cosa? Antiche chiesette, architetture singolari, spiazzi belvedere, panorami mozzafiato?
Certamente la vista delle vallate sottostanti e dei rilievi prealpini da un lato e delle cime rocciose delle alpi Giulie dall’altro è un ottimo regalo che la natura offre dal Matajur e dal Kolovrat.
Purtroppo, in quest’estate ardente di un sole impietoso, che arrossava di colori autunnali il verde dei boschi, ben poco refrigerio potevano offrire l’acqua del Natisone e dei torrenti affluenti.
Questa è l’immagine che mi si componeva nella mente mentre, da Udine, percorrevo le strade verso Kras di Dreka/Drenchia nel giorno di Ferragosto, la «Rožinca», che continua ad essere una delle feste più sentite, un appuntamento irrinunciabile per molti valligiani rimasti ed emigrati.
Un mondo da me conosciuto ed amato, ricco di ricordi, di emozioni, di quadri di vita belli e meno belli, campo rigoglioso di studi, di immagini raccolte da quando mi trovai tra le mani la mia prima macchinetta fotografica fino ad oggi, quando dispongo del cellulare sofisticato strumento tecnologico che ognuno di noi porta con sé.
Mi manca però la «macchina del tempo», quella che nella fantasia riporterebbe indietro fisicamente a ripercorrere tempi andati, a ricostruire e magari modificare eventi avvenuti chissà quando e chissà dove.
Anche a me non rimane altro che la fantasia o l’immaginazione per ricostruire fatti, immagini, sensazioni di tempi lontani. Ed in effetti procedendo con la mente nel percorso dalla pianura friulana verso le Valli cerco di formarmi un’immagine di come potesse apparire il panorama che mi si presentava man mano un secolo e mezzo fa, o anche solo ai tempi in cui io stesso ne facevo parte.
Intanto cerco di cancellarvi il manto boschivo per vedervi ampi prati cosparsi di mede, punteggiati da frondosi castagni e di macchie alberate. Ben evidenti i terrazzamenti dei campicelli sottratti ai declivi ricchi di frumento, granturco, patate, filari di viti, qua e là piante di ogni tipo, meli, peri, peschi, ciliegi e quant’altro. Paesini ben visibili attorniati da orti e campicelli, la vivacità di un popolo numeroso e sempre in attività come formiche nel viavai attorno ai centri abitati.
Cerco di capire come e da dove l’operosità dei circa 18.000 valligiani di allora potesse dare i frutti contabilizzati e descritti da Francesco Musoni nella sua relazione sulle condizioni agricole nel Distretto di S. Pietro al Natisone e riportati da Olinto Marinelli nel suo «La Slavia italiana» per l’anno 1907. Oggi quei dati parrebbero inventati di sana pianta: 33.963 quintali di frumento, 14.434 ettolitri di vino, 27.275 kg di bozzoli, 22.271 q. di mais, 23.726 q. di patate, 30.000 q. di mele, 2.900 q. di pere, 3.892 q. di rape, 20.000 q. di castagne. Risultavano censiti, allora, 6.480 bovini, 146 equini ed un migliaio di ovini e caprini. E dire che – come osservava lo stesso Musoni – i metodi di coltivazione erano ancora primitivi, mancavano l’istruzione agraria, mancavano i capitali, le strade di accesso al territorio, concimi ed erano sconosciuti i servizi sociali.
Non ho idea delle quantità produttive agricole odierne, ma non occorre Musoni per capire che nei prati scomparsi, nei campicelli ricoperti di boschi non crescono né frumento né patate. D’altronde ben poco si può pretendere dalla sparuta consistenza numerica e dall’elevata età media dei residenti. Si pensa finalmente, con un ritardo mostruoso, di correre ai ripari puntando sul turismo, un sogno da Aladino che con la sua lampada magica trasformi in positivo l’abbandono umano del territorio per lasciarlo all’iniziativa autonoma della natura, ridivenuta padrona incontrastata.
Ma, c’è un MA gigantesco. A parte la parossistica frammentazione delle proprietà fondiarie e lo svuotamento dei paesini in quota, vengano pure i turisti in cerca di qualcosa, ma oltre le strade asfaltate cosa vi trovano sul percorso? Una vecchia osteria? Un tracciato ginnico degno del nome? Sentieri didattici o almeno percorribili? Posti di sosta e ristoro non limitati al Matajur e al Kolovrat? È vero, per i più impellenti bisogni corporali non mancano i cespugli. Lodevolissime le iniziative delle Proloco come, ad esempio, quella della promozione delle Chiesette votive. Ma, io credo, al turista non basta un bel panorama ed a rivitalizzare un luogo serve qualcosa di più di un veloce passaggio del Giro d’Italia.
A Kras di Drenchia per la ferragostana festa patronale dell’Assunta c’erano radunate sul sagrato almeno 200 persone; alcune han trovato la disponibilità del pranzo a Solarie. Una parte di essi, trasferitisi chissà dove in pianura, ha rivisitato parenti e conoscenti, gli altri, per non rimanere a becco asciutto se ne sono tornati verso casa. Anche per un picnic occorre uno spiazzo per l’auto e magari un tavolo con panchina per mangiarsi un panino.
Riccardo Ruttar