La serie di Incontri culturali della Benecia — Beneški kulturni dnevi «Scopriamo la nostra storia – Odkrivajmo našo zgodovino« si è conclusa lo scorso 4 marzo nella sala consigliare messa a disposizione dal comune di San Pietro al Natisone. L’iniziativa è stata promossa ed organizzata dall’Istituto per la cultura slovena con la collaborazione di Giorgio Banchig, che ne ha impostato la struttura culturale, curato le otto tappe, scegliendo i docenti e gli esperti che si sono succeduti dal primo incontro del 5 novembre 2009.
Che formula, contenuto, a partire dal titolo, ed avvicendamento dei relatori siano stati azzeccati è stato dimostrato dalla presenza interessata e costante del numeroso pubblico presente in sala a scadenza bisettimanale. Si è iniziato dalla preistoria, per passare poi all’età romana, all’alto Medioevo, al Medioevo, all’epoca veneziana ed al Risorgimento. Per motivi contingenti la tappa riservata alla Prima guerra mondiale fu quella conclusiva, anticipata, quindi da quella riservata al Ventennio fascista.
Non serve specificare che l’oggetto di ricerca e di studio era la Benecia, appunto, che in questa panoramica diacronica ha dimostrato di essere stata, già dalla preistoria, un luogo tutt’altro che chiuso e marginale nell’intero ambito europeo. Il tracciato del Natisone / Isonzo, quale via di comunicazione transalpina, ritrova un suo particolare significato nella storia più recente, basti ricordare quanto viene evocato dal termine «Caporetto» nel primo conflitto mondiale.
È su alcuni particolari di quelle battaglie, che hanno condotto allo sfascio dell’esercito italiano ed allo sfondamento del fronte, che si è soffermata la relazione dello storico Paolo Gaspari nell’incontro del 4 marzo. Egli, con uno studio dei particolari quasi maniacale, ha ricostruito, si potrebbe dire minuto per minuto, le fasi della battaglia sullo Špik nei pressi di Castelmonte, esprimendo valutazioni tattiche delle forze in campo, proponendo addirittura riferimenti a strategie belliche collaudate da antichi condottieri. Nel nostro caso sarebbe arduo entrare nei particolari evidenziati dal relatore sulla consistenza, la dislocazione, l’armamento delle forze in campo ed il loro gioco tattico. Quanto di tutto ciò sia stato memorizzato dagli attenti ascoltatori riveste una relativa importanza, ma essi hanno potuto farsi un’immagine plastica di quanto è successo sui versanti dei monti della Slavia, tenendo sempre presente che al centro di tutto c’era il soldato, l’uomo, che era costretto a sfidare la morte in ogni istante. I presenti hanno però potuto ascoltare, su argomentazioni documentate, come la battaglia sia stata impari in quello storico confronto militare e come i combattenti sul fronte italiano abbiano lottato con estremo coraggio e siano stati sconfitti con onore; rigettando, quindi, l’immagine di armata Brancaleone che spesso viene data ai fanti del regio esercito. Non si è parlato delle responsabilità dei vertici di comando, ma questa è un’altra “storia“.
In campo c’erano l’enorme superiorità numerica dell’esercito austro-tedesco e la lunga e meticolosa preparazione strategica dell’offensiva che aveva localizzato con precisione le postazioni belliche difensive delle forze italiane, tanto da non dover neppure sparare cannonate di prova per aggiustare il tiro. Senza contare la dotazione di nuove armi dell’esercito nemico, contro cui ben poco potevano il coraggio e l’abnegazione dei soldati italiani. Le pesanti ed arretrate mitragliatrici italiane, che abbisognavano di un intero plotone per poter essere piazzate e messe in funzione, potevano contrastare ben poco quelle dell’avversario, che disponeva, ad esempio, di mitragliatrici più efficaci e leggere, tali che un solo uomo poteva trasportare, assistito da una paio di portatori di munizioni. Impressionanti, poi, i numeri dell’incredibile schieramento di cannoni che preparavano la strada agli assalitori, devastando ogni metro di terreno…
Le immagini evocate dalle parole rendevano palpabile l’incubo di quella che Benenedetto XV aveva definita “l’inutile strage”.
Alla fine della guerra, col trattato di Rapallo il regno d’Italia allargò definitivamente i suoi confini al territorio di Plezzo / Bovec e Tolmino / Tolmin, ma già pochi giorni dall’inizio della guerra le divisioni italiane avevano occupato parte dei territori sloveni, inglobandovi complessivamente circa 28.000 abitanti.
Quale sia stato il senso di quella occupazione militare italiana nel biennio 1915/17 è stato esposto in forma precisa e documentata dalla dottoressa Petra Svoljšak dell’Istituto di storia “Milko Kos”, presso l’Accademia slovena delle scienze e delle arti. Ad ascoltare, ma soprattutto a rileggere la dozzina di pagine della sua relazione, si ha chiaro e netto il disegno nazionalistico di italianizzazione forzata della popolazione annessa. Limitandoci alle zone a ridosso della Slavia, furono occupate dalle truppe italiane le attuali località di Bovec, Breginj, Čezsoča, Drežnica, Idrsko, Kobarid, Kred, Libušnje, Livek, Sedlo, Srpenica, Trnovo ob Soči, Volče e Žaga. Per la gestione degli stessi fu insediato un segretariato generale retto dal prefetto Agostino D’Ama, ma la vita della popolazione scorreva sotto l’attento controllo del commissariato civile con sede a Caporetto. Se, da un lato, il generale Achille Papa annotava: «Dobbiamo accattivarci queste popolazioni, senza cozzare coi loro sentimenti, con la loro lingua, che gli è tanto cara», di fatto, denuncia la relatrice Svoljšak: «I commissari civili si sono premurati, già dai primi giorni, di predisporre i sistemi di sicurezza. Ragione per cui hanno arrestato e internato in Italia tutti i maschi dai 18 ai 50 anni, tutti i sacerdoti sloveni, gli insegnanti, i sindaci ed i responsabili di singoli paesi e le persone di rilievo, i quali venivano accusati di spionaggio a favore dell’Austria. Hanno accusato innocenti d’aver sparato contro militari italiani, che in realtà stavano disertando, tanto da arrestare nei paesi sotto il Krn / Monte Nero 61 uomini, per poi fucilarne uno su dieci, la famigerata decimazione, il 4 giugno del 1915, per far capire alla gente il destino di chi si fosse ribellato allo strapotere italiano. Fu imposto l’italiano come lingua ufficiale; tale la lingua dei proclami, della scuola con l'italianizzazione di nomi, cognomi, toponomastica e denominazioni stradali».
E pretendevano di essere riconosciuti come “liberatori” dal giogo austriaco! Lo aveva constatato lo stesso futuro Duce, al suo ritorno a Caporetto il 15 febbraio 1916 dopo la visita precedente del 15 novembre1915 scrivendo: «La gente non è cambiata. Entro nei negozi e vedo ancora volti scuri. No, questi sloveni non ci vogliono bene. Ci sopportano con rassegnazione e tacita avversione. Sono convinti che siamo solo di passaggio e non vogliono compromettersi in attesa del ritorno dei padroni di ieri».
Ovviamente, come per esperimentare future annessioni territoriali, la forzata italianizzazione era accompagnata da un notevole sforzo organizzativo della vita civile e nella costruzione di infrastrutture. Particolari attenzioni venivano riservate all’infanzia vista, però, come elemento cardine del processo di sostituzione dell’identità nazionale. La retorica del messaggio “Italiani brava gente” ha mostrato il suo vero senso un quarto di secolo più tardi, quando l’esercito italiano invase un’altra parte di Slovenia, al comando di generali che sadicamente richiamavano all’ordine i sottoposti osservando che «qui si ammazza troppo poco!”. Questo… parlando di Patria!