La casa dei gesuiti a Udine, fondata da p. Antonio Banchig su insistente richiesta dell’arcivescovo mons. Andrea Casasola, ebbe vita brevissima, neanche il tempo di pensare ad una sede autonoma nella quale trasferire la piccola comunità di cinque padri dai locali messi a disposizione, nell’attuale via Prefettura, da san Luigi Scrosoppi, superiore dei filippini.
Per non suscitare le reazioni degli ambienti anticlericali udinesi, i gesuiti iniziarono il loro ministero di predicatori di missioni al popolo dai paesi di campagna del Friuli, spingendosi di frequente anche nel Goriziano, sia friulano che sloveno.
Dal momento che la loro opera ebbe un grande seguito mons. Casasola decise di allargare la comunità dei gesuiti e consolidare la loro azione nell’arcidiocesi. Ma il suo desiderio non si avverò per l’incombere degli eventi bellici, che portarono il Friuli e il Veneto sotto il dominio del Regno Sabaudo.
P. Barbieri nelle «Litterae annueae» annotò: «In verità gli inizi così felici del soggiorno udinese, e le speranze di aumentare gradualmente le opere e le cure nostre per la salvezza delle anime, dopo l’ottavo mese sovvertì quell’imprevedibile cambiamento della situazione politica che seguì alla sconfitta degli Austriaci presso Albi. Di questa sventura ogni uomo di buon senso si dolse moltissimo, ma nessuno la sopportò più duramente dell’Arcivescovo che era stato l’autore e il curatore prudentissimo delle iniziative avviate così felicemente»1.
Era scoppiata la terza guerra d’indipendenza. Le ostilità con l’Austria iniziarono il 20 giugno, quando l’Italia consegnò la dichiarazione di guerra all’arciduca Alberto, comandante austriaco in Italia. La notizia arrivò presto in Friuli, provocando una mobilitazione generale: di esultanza in quanti vedevano l’arrivo delle truppe italiane come una liberazione dal dominio austriaco, di timore per quanti, leali alla casa d’Austria, temevano il sovvertimento dell’ordine stabilito e soprattutto per le sorti della Chiesa, dello Stato pontificio e delle congregazioni religiose.
E ne avevano ben donde, perché la politica italiana nei confronti della Chiesa si faceva vieppiù contraria, se non proprio persecutoria. Il 17 maggio 1866, con la firma di Vittorio Emanuele II, entrò in vigore la legge Crispi, che «accordava al governo del Re la facoltà di assegnare il domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, ai camorristi ecc., e a tutte le persone indiziate di voler restaurare l’antico ordine di cose, o nuocere in qualunque modo all’unità d’Italia»2. Giustamente la legge fu chiamata «del sospetto», perché chiunque poteva essere oggetto delle sanzioni previste in base ad una semplice denuncia verbale di agire contro l’unità dello Stato. Appena le legge fu sancita, nei territori già facenti parte del Regno d’Italia, «il governo incontinente si scagliò, senza pietà e senza un pudore al mondo, sopra i più illustri Vescovi e sacerdoti che in quei giorni onorassero l’Italia; senza veruna forma di processo li gettò in carcere e dalla carcere li cacciò in esilio»3.
Nel mese di giugno venne approvata la legge che stabiliva la soppressione delle congregazioni religiose e che le «case e gli stabilimenti appartenenti agli ordini, alle congregazioni, alle corporazioni» siano incamerati dallo Stato. Il giornale «L’osservatore cattolico» di Milano scrisse che quella legge «era stata giurata nelle congreghe dei framassoni. In quel giorno Crispi gridava: “Il cattolicesimo ha fatto il suo tempo”» e mentre i deputati votavano la legge, il parlamento «non pareva un’aula di legislatori. Gli spropositi, i nonsensi, le contraddizioni, le bestemmie scoppiavano, s’incrociavano, cadevano da tutte le parti»4.
Questo clima di ostilità verso la Chiesa spiega perché non c’era nessun motivo per la Chiesa friulana «di desiderare l’Italia liberale, anche se negli anni dopo Villafranca anche in Austria iniziano riforme dello stesso segno politico, nonché dello stesso intento liberalizzatore»5.
Quanto fossero stati fondati i timori per l’arrivo delle nuove autorità italiane, fu dimostrato dall’aggressione subita dall’arcivescovo Casasola il 15 marzo 1867, quando «una folla inferocita invase e mise a soqquadro il palazzo arcivescovile. Chi disse che si voleva uccidere l’arcivescovo, altri che lo si voleva far fuggire. Fatto è che dal quel giorno e fino al 25 marzo dell’anno successivo mons. Casasola rimase chiuso in palazzo, prigioniero volontario, in segno di protesta. Ne uscì per recarsi a Torino al matrimonio del principe ereditario Umberto con Margherita, svoltosi il 22 aprile 1868. Rientrato a Udine, gli fu comunicata la nomina a grand’ufficiale della Corona d’Italia, onorificenza che, a que’ tempi, s’accordava ben raramente e per meriti insigni»6. Ma mons. Casasola «gentilmente ringraziando pregò […] per doveri di coscienza, di essere sollevato di accettare l’offerta onorificenza»7.
All’inizio dell’estate del fatidico 1866 gli eventi incalzavano e il subentro delle autorità italiane a quelle austriache era solo questione di tempo. Nel mese di luglio, mentre Garibaldi avanzava in Trentino, il generale Cialdini attraversava il Veneto e raggiungeva il Friuli, dal quale gli austriaci si erano ritirati con una mossa rapida, ma male organizzata.
I gesuiti, memori delle esperienze del 1859, erano da tempo in allarme e pronti ad ogni evenienza. Mentre le truppe italiane si avvicinavano, «i Padri dovettero mettersi in salvo con la fuga. Questa fu eseguita, non meno della venuta, alla sordina. Il 17 luglio abbandonarono la città due Padri; il 22, unitamente alla guarnigione austriaca, ne usciva un terzo, ch’era il Superiore [p. Banchig, ndr]; il 25, nel qual giorno entravano le milizie italiane, partì l’ultimo Padre con un fratello. Tutti si recarono a Gorizia, ove la divina provvidenza aveva loro preparato un asilo; e fu nel modo veramente mirabile… »8.
Durò così appena nove mesi la residenza dei gesuiti a Udine, una residenza prima osteggiata dalla Repubblica di Venezia, poi interrotta bruscamente dall’arrivo delle truppe italiane e dall’annessione del Friuli al Regno Sabaudo.
P. Antonio Banchig e i suoi confratelli rifondarono la casa dei gesuiti a Gorizia, dove la Compagnia di Gesù era approdata già nel 1615, ma la sua presenza fu interrotta dalla soppressione avvenuta nel 1773 a opera di papa Clemente XIV.
Note
1. Archivio della Compagnia di Gesù di Gallarate.
2. A, Aldegheri, Breve soria della provincia veneta della Compagnia di Gesù, Venezia 1914, p. 180.
3. Ivi.
4. Ivi, p. [284].
5. L. Ferrari, La Chiesa friulana nell’Ottocento, in Il Friuli – Storia e società (a cura di A. Buvoli), II, Udine 2004, p. 218.
6. T. Tessitori, Storia del movimento cattolico in Friuli, Udine 1964, pp. 8 — 9.
7. «Il cittadino italiano», 18 — 19 maggio 1881.
8. Breve storia, cit., p. 188.