«Non sono né una santa né una strega, solo una donna, una persona a volte provata dalle avversità della vita. E la fede e la speranza mi hanno aiutata». Da Salandri/Tistran, una delle borgate che formano Forame/Malina, a 102 anni Albina D’Anzul può dire di averne viste davvero tante e ha ancora tempra da vendere. Fino a un paio d’anni fa riusciva ancora a muoversi e camminare, da qualche tempo è costretta a letto, ma resta ancora molto lucida. E trova ancora il tempo di leggere, o ricontrollare le annotazioni dal passato che ha scritto. Memorie, aneddoti, preghiere e racconti non solo in italiano, anche nella lingua tradizionale del paese, il dialetto sloveno della Val Malina.
Parlando con Albina emergono molti dei temi che ricorrono in molte storie di tanti anziani della Slavia. Nata il 15 febbraio del 1922 a Cancellier/Kančilirja, borgata di Subit/Subid, Albina ha perso la madre Luigia quando aveva solo due anni. «È mancata per meningite », ricorda. «Prima che nascessi, mio padre Valentin D’Anzul era partito per l’America in cerca di fortuna. Così mia nonna materna Maria mi ha accolto a casa sua». In casa dei nonni a Cancellier Albina è rimasta per nove anni. «All’epoca là abitava una ventina di famiglie e la nostra casa si trovava un po’ fuori dall’abitato. In famiglia eravamo in tanti, un fratello di mio padre e sei tra fratelli e sorelle di mia madre. «Quando avevo 11 anni, poi, mio padre è ritornato ed è stato tutto un trambusto. Avevo paura di mio padre, perché non lo avevo mai visto. Se lo vedevo scappavo. A suon di dai e dai, però, poi sono andata a vivere con lui». Ad Albina, così, è presto toccata la cura della casa. «Frequentavo le scuole a Subit. Mio padre Valentin un giorno è andato dalla maestra, per dirle che sarei dovuta rientrare ogni giorno alle 11.30 per badare alla casa… Per fortuna che c’era un’amica, una signora più vecchia, che mi aiutava a ribaltare la polenta, perché da sola non avevo la forza sufficiente a ribaltare il paiolo. Tra paesani ci aiutavamo».
Il padre di Albina era severo, forse un po’ sbrigativo. «Non ha aspettato che mi ambientassi alla casa. I miei nonni avevano due mucche, il maiale, le galline da accudire… Ci tenevano, ma non erano particolarmente severi. Mio padre invece sì, fai questo, fai quello… Una volta ricordo di essere andata a lavare a mano un suo grande lenzuolo nel torrente Malina ed era difficile, perché a quei tempi spesso arrivavano in casa anche le pulci. Non era una vita facile».
Anche nel territorio di Attimis è vivo il ricordo del terremoto del 1976, ma nei racconti di Albina sono molto vivi gli orrori e i dolori portati dalla seconda guerra mondiale. «Durante la guerra a Subit abbiamo avuto due rastrellamenti (a luglio e settembre del 1944, ndr). Nel secondo sono state bruciate diverse case e persone. Poi hanno fatto saltare in aria la chiesa. La Madonna sull’altare è rimasta intatta, solo una mano è rimasta danneggiata. Dopo che i soldati se ne sono andati, siamo tornati in paese, ma avevano portato via tutto, anche le mucche. Non credo fossero solo i tedeschi, anche i fascisti». La zona era molto calda dal punto di vista dell’attività militare. «Avevamo il comando cosacco in un palazzo di Attimis, a Forame c’era il comando dei fascisti. E Mussolini doveva sottostare a Hitler anche quando si verificavano quelle scorrerie in cui rimanevano uccisi degli innocenti».
Per le forti esplosioni, da quel periodo Albina non sente bene dall’orecchio sinistro, malgrado abbia cambiato diversi apparecchi.
La fine della guerra ha portato cambiamenti anche nella vita di Albina. «Sono rimasta con mio padre fino ai 23 anni, quando mi sono sposata». Galeotto è stato un pellegrinaggio a Castelmonte/Stara Gora. «Ho conosciuto mio marito Luigi Grimaz verso la fine della guerra. Noi del paese eravamo a fare un ringraziamento a piedi alla Madonna di Castelmonte, per averci protetto al passaggio dei tedeschi. È lì che lo ho visto per la prima volta, era in pellegrinaggio anche lui». Alla fine della guerra Luigi è tornato in Italia. Per l’Europa è iniziato un periodo di pace.
«Nel 1945 mi sono sposata e con mio marito Luigi Grimaz siamo venuti ad abitare qui a Salandri, dove aveva la casa». Luigi, infatti, era un abitante di Salandri, un Tistranjen. «Lavorava in casa con la famiglia, avevano le mucche, ma faceva anche il muratore». Anche se sposata e a Salandri, per Albina il lavoro ha continuato a essere molto. «Quando sono venuta qui ho trovato le mucche da mungere, la casa da seguire e i campi da lavorare. E poi nel 1946 è nato mio figlio Mario, a cui badare. Lo mettevo nella gerla e scendevo a zappare il grano e il campo, o magari andavo ad aiutare gli altri. E poi c’era il vino da fare o il formaggio». Perché c’era miseria, ma ci si aiutava. «Con Luigi abbiamo avuto ancora altri due figli, Renato nel 1950 e Aldo nel 1967. Da muratore, ha aiutato a costruire la casa anche i suoi figli Mario e Renato. Dopo il terremoto del 1976, invece, è stata costruita la casa in cui abito con mio figlio Aldo. Nella sua attività, mio marito è stato anche in Basilicata per costruire l’autostrada».
In oltre cento anni Albina ha viaggiato poco. «C’erano le mucche, c’era il vigneto… Solo dopo che è mancato mio marito sono stata qualche volta in viaggio. Ho visto l’Austria e anche la Spagna», dice Albina sorridendo e pensando alla schiera di nipoti e pronipoti nati dopo tante fatiche e attraverso i cambiamenti di cui è stata testimone partecipe. (Luciano Lister)