È una vita che una parte degli abitanti della Benečija, vale a dire di quelli che in questo nome caratterizzante si riconoscono, si sforza di salvaguardare quanto di questo mondo antico di lingua, di cultura, di specifici valori identitari, umani, morali, culturali, economici, artistici e ambientali è rimasto. Per poterlo scrivere quel nome «Benečija» con un certo ritrovato orgoglio ci volle un secolo e mezzo in aspettativa di un riconoscimento giuridico arrivato ben 125 anni dopo l’annessione al Regno sabaudo, divenuto poi Regno d’Italia. Presto festeggeremo, forse, i cinque lustri da quando l’Italia riconobbe con legge la nostra esistenza come minoranza linguistica, concedendo il meno possibile di quelle «apposite norme» che la Costituzione repubblicana aveva già previsto nei suoi primissimi articoli. Ed è bene che ci guardiamo intorno, magari anche tra noi, per valutare se e quale sia stato il percorso della comunità degli sloveni in provincia di Udine non solo in questo ultimo quarto di secolo.
Mi ha fatto da stimolo a riflessioni in tal senso la lunga e interessante intervista pubblicata sulNovi Matajur del 14 gennaio alla dottoressa ricercatrice e operatrice nella startup Co2nvert,Martina Tomasetig. Due le caratteristiche che, per me, la contraddistinguono: l’amore per la propria terra e la sua gente e la sua già vasta esperienza in un mondo allargato ben oltre i confini nazionali. Quasi mettendo a confronto il nostro piccolo circoscritto mondo con l’enormità senza confini del resto. Fa intendere che non è detto che «il piccolo » locale sia senza possibilità di una riviviscenza prima economica e poi anche linguistica, culturale, economica e, infine, anche identitaria. Strade possibili ci sono se la seppur scarsa forza giovanile rimasta potesse finalmente ritrovare ragioni e mezzi per rimanervi, per viverci, per produrre in loco senza dover allontanarsi in cerca di senso ai propri sforzi per acculturarsi e prepararsi ad una professione qualificata. Accennando alle opportunità offerte dallo sviluppo tecnologico, alla domanda di quale modello economico potrebbe usufruire positivamente la Benečija, la dottoressa riafferma la possibile offerta turistica ma non la sola. Ed è quello che essa stessa cerca di fare.
Ha aperto una start-up e un’attività a Cividale e «Grazie ai miei studi universitari – racconta – ho avuto la possibilità di girare il mondo (cita America e Cina) ed acquisire saperi ed esperienze. Ma il luogo dove voglio rimanere è qui in Benečija. Benché mi piaccia girare il mondo e vedere cose nuove volentieri ritorno e qui da noi vedo la mia vita e la mia attività lavorativa».
La cito come un caso paradigmatico, un valore esemplare da perseguire, da suggerire ai tanti nostri ragazzi e ragazze che si preparano il proprio futuro, che possano fare scelte di studio con analoghe finalità. Sì, perché troppo si è perso finora degli enormi potenziali locali: è da molti decenni che molti dei nostri giovani raggiungono elevati livelli di istruzione e corrispondenti risultati professionali, ma ben pochi rimangono nell’ambito della nostra comunità minoritaria. Ripensandoci, sono trascorsi 25 anni da quando è stata pubblicata una ricerca eseguita dallo Slori – Slovenski raziskovalni inštitut – Istituto sloveno di ricerche di Cividale proprio col titolo «I diplomati della Slavia». Una ricerca che ha recuperato negli archivi di tutte le scuole superiori i nomi dei diplomati che tra gli anni 1975-1997, alla data del diploma risiedevano nei sette comuni delle valli. Ne sono stati contati di età tra i 19 e 41 anni, in numero di 627. Di quell’età, in base ai dati anagrafici (Istat 1981) i maschi nei sette comuni erano 1.015 e le femmine 974. I maschi aventi un titolo di scuole superiori risultavano il 22,5% (228) mentre le femmine raggiungevano il 41% (399). La domanda che mi ponevo allora era la stessa che molti ci siamo posti in tutti questi anni: dove è finita la stragrande maggioranza di essi, in primis le donne? Non è un’anomalia, in positivo, che la percentuale delle donne diplomate fosse allora quasi doppia rispetto a quella dei maschi? Ciò fa pensare che, guardando le cose con l’occhio odierno, nella nostra comunità il cosiddetto «patriarcato» avesse avuto un volto ed un ruolo particolare, quasi di privilegio e cura del presente e del futuro delle figlie.
I dati, però, si collegano e spiegano in parte anche un altro fenomeno particolare nostrano che ha visto, nello stesso periodo preso in considerazione, un macroscopico divario demografico tra i maschi e le femmine residenti nelle fasce d’età 20 – 50 anni. All’incirca possiamo considerarli gli anni in cui si può contribuire al saldo demografico. Nel censimento del 1981, rispetto ai maschi, (1.774 in quella fascia d’età), le femmine erano 1.318, con uno scarto negativo di 426 unità. Si può capire perché ai maschietti mancasse la possibilità, l’elemento essenziale per accompagnarsi in loco.
D’altronde, diventano comprensibili altri dati sullo stato civile della popolazione complessiva di allora. Tanto per dare qualche cifra: i celibi erano 1.673 ma le nubili in 1.150. Dice qualcosa la differenza di 523? Le coppie coniugate più o meno si equivalevano, ma tra vedovi e vedove un altro dato eclatante: 116 i vedovi e 856 le vedove. Questi alcuni sprazzi demografici dei sette comuni valligiani quasi mezzo secolo addietro.
Per la crisi attuale sono profonde le premesse. Lo so che i dati sono vecchi di 43 anni ma indicano un percorso demografico, sociale ed economico che ha radici lontane. Le ragazze già allora avevano una marcia in più e la stessa le ha allontanate lasciando i maschi alle loro speranze deluse. Si può sperare in un possibile ritorno, magari di nostalgiche giovani generazioni? Anche. Visto che con un po’ di ingegno e qualche soldo, si può immaginare anche un rivoluzionario «new home working»!
Riccardo Ruttar
Le ragazze hanno una marcia in più_ Dekleta so prevzela pobudo
È una vita che una parte degli abitanti della Benečija, vale a dire di quelli che in questo nome caratterizzante si riconoscono, si sforza di salvaguardare quanto di questo mondo antico di lingua, di cultura, di specifici valori identitari, umani, morali, culturali, economici, artistici e ambientali è rimasto. Per poterlo scrivere quel nome «Benečija» con un certo ritrovato orgoglio ci volle un secolo e mezzo in aspettativa di un riconoscimento giuridico arrivato ben 125 anni dopo l’annessione al Regno sabaudo, divenuto poi Regno d’Italia. Presto festeggeremo, forse, i cinque lustri da quando l’Italia riconobbe con legge la nostra esistenza come minoranza linguistica, concedendo il meno possibile di quelle «apposite norme» che la Costituzione repubblicana aveva già previsto nei suoi primissimi articoli. Ed è bene che ci guardiamo intorno, magari anche tra noi, per valutare se e quale sia stato il percorso della comunità degli sloveni in provincia di Udine non solo in questo ultimo quarto di secolo.
Mi ha fatto da stimolo a riflessioni in tal senso la lunga e interessante intervista pubblicata sulNovi Matajur del 14 gennaio alla dottoressa ricercatrice e operatrice nella startup Co2nvert,Martina Tomasetig. Due le caratteristiche che, per me, la contraddistinguono: l’amore per la propria terra e la sua gente e la sua già vasta esperienza in un mondo allargato ben oltre i confini nazionali. Quasi mettendo a confronto il nostro piccolo circoscritto mondo con l’enormità senza confini del resto. Fa intendere che non è detto che «il piccolo » locale sia senza possibilità di una riviviscenza prima economica e poi anche linguistica, culturale, economica e, infine, anche identitaria. Strade possibili ci sono se la seppur scarsa forza giovanile rimasta potesse finalmente ritrovare ragioni e mezzi per rimanervi, per viverci, per produrre in loco senza dover allontanarsi in cerca di senso ai propri sforzi per acculturarsi e prepararsi ad una professione qualificata. Accennando alle opportunità offerte dallo sviluppo tecnologico, alla domanda di quale modello economico potrebbe usufruire positivamente la Benečija, la dottoressa riafferma la possibile offerta turistica ma non la sola. Ed è quello che essa stessa cerca di fare.
Ha aperto una start-up e un’attività a Cividale e «Grazie ai miei studi universitari – racconta – ho avuto la possibilità di girare il mondo (cita America e Cina) ed acquisire saperi ed esperienze. Ma il luogo dove voglio rimanere è qui in Benečija. Benché mi piaccia girare il mondo e vedere cose nuove volentieri ritorno e qui da noi vedo la mia vita e la mia attività lavorativa».
La cito come un caso paradigmatico, un valore esemplare da perseguire, da suggerire ai tanti nostri ragazzi e ragazze che si preparano il proprio futuro, che possano fare scelte di studio con analoghe finalità. Sì, perché troppo si è perso finora degli enormi potenziali locali: è da molti decenni che molti dei nostri giovani raggiungono elevati livelli di istruzione e corrispondenti risultati professionali, ma ben pochi rimangono nell’ambito della nostra comunità minoritaria. Ripensandoci, sono trascorsi 25 anni da quando è stata pubblicata una ricerca eseguita dallo Slori – Slovenski raziskovalni inštitut – Istituto sloveno di ricerche di Cividale proprio col titolo «I diplomati della Slavia». Una ricerca che ha recuperato negli archivi di tutte le scuole superiori i nomi dei diplomati che tra gli anni 1975-1997, alla data del diploma risiedevano nei sette comuni delle valli. Ne sono stati contati di età tra i 19 e 41 anni, in numero di 627. Di quell’età, in base ai dati anagrafici (Istat 1981) i maschi nei sette comuni erano 1.015 e le femmine 974. I maschi aventi un titolo di scuole superiori risultavano il 22,5% (228) mentre le femmine raggiungevano il 41% (399). La domanda che mi ponevo allora era la stessa che molti ci siamo posti in tutti questi anni: dove è finita la stragrande maggioranza di essi, in primis le donne? Non è un’anomalia, in positivo, che la percentuale delle donne diplomate fosse allora quasi doppia rispetto a quella dei maschi? Ciò fa pensare che, guardando le cose con l’occhio odierno, nella nostra comunità il cosiddetto «patriarcato» avesse avuto un volto ed un ruolo particolare, quasi di privilegio e cura del presente e del futuro delle figlie.
I dati, però, si collegano e spiegano in parte anche un altro fenomeno particolare nostrano che ha visto, nello stesso periodo preso in considerazione, un macroscopico divario demografico tra i maschi e le femmine residenti nelle fasce d’età 20 – 50 anni. All’incirca possiamo considerarli gli anni in cui si può contribuire al saldo demografico. Nel censimento del 1981, rispetto ai maschi, (1.774 in quella fascia d’età), le femmine erano 1.318, con uno scarto negativo di 426 unità. Si può capire perché ai maschietti mancasse la possibilità, l’elemento essenziale per accompagnarsi in loco.
D’altronde, diventano comprensibili altri dati sullo stato civile della popolazione complessiva di allora. Tanto per dare qualche cifra: i celibi erano 1.673 ma le nubili in 1.150. Dice qualcosa la differenza di 523? Le coppie coniugate più o meno si equivalevano, ma tra vedovi e vedove un altro dato eclatante: 116 i vedovi e 856 le vedove. Questi alcuni sprazzi demografici dei sette comuni valligiani quasi mezzo secolo addietro.
Per la crisi attuale sono profonde le premesse. Lo so che i dati sono vecchi di 43 anni ma indicano un percorso demografico, sociale ed economico che ha radici lontane. Le ragazze già allora avevano una marcia in più e la stessa le ha allontanate lasciando i maschi alle loro speranze deluse. Si può sperare in un possibile ritorno, magari di nostalgiche giovani generazioni? Anche. Visto che con un po’ di ingegno e qualche soldo, si può immaginare anche un rivoluzionario «new home working»!
Riccardo Ruttar
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