Con cani e gatti non c’è futuro

Mi sono sempre interessato alla demografia, perché è una delle componenti fondamentali per la comprensione delle dinamiche di qualsiasi territorio, ampio o circoscritto, di questa nostra casa comune che è la Terra. Ovviamente l’attenzione primaria rimane sempre orientata al proprio mondo, a quello in cui sono nato, all’ambiente ed alla gente che mi sta attorno e che è anche stato l’oggetto dei miei studi e del mio lavoro. Ricordo i miei primi anni di insegnante elementare nei diversi ambiti del confine orientale, da Dreka/Drenchia a Učja/Uccea (Rezija/Resia), da Bela Peč/Fusine in val Romana a Žabnice/Camporosso. In particolare mi ha interessato la frazioncina di Uccea sotto il Kanin/ Canin. Con alla mano i registri parrocchiali ho esaminato e catalogato tutta la popolazione di allora, presente ed emigrata, le classi d’età e le rispettive condizioni sociali e lavorative. Poco più di 120 abitanti in parte sparsi sul ripido versante montuoso. Uno dei primi esempi emblematici dei particolari fenomeni antropici del nostro territorio di confine.

Ho continuato a studiare le questioni demografiche della Benečija col mio lavoro nello Slovenski raziskovalni inštitut (Istituto di ricerche sloveno) e dal 1979 per oltre quattro decenni ho potuto constatare il decadimento inesorabile della presenza umana sul territorio sloveno di confine.

Le mie Valli del Natisone le vedo come un contenitore bucherellato che spande da innumerevoli fori, reso impossibilitato a poter riaccumulare le perdite. I primi ad andarsene sono stati i giovani, in cerca di migliori opportunità di vita e, forse, solo negli ultimi tempi si può intravvedere un rallentamento del fenomeno dopo una presa d’atto della necessità di soluzioni concrete al disagio sociale ed economico globale.

Quello che mi crea una forte perplessità è constatare la progressiva perdita dell’identità etnolinguistica che, invece, caratterizzò i nostri antenati. Ho l’impressione che una qualche rinascita ed un qualche sviluppo economico sia in atto, ma mi chiedo quanto questo miglioramento possa favorire ancor più la perdita dei valori linguistici e culturali della nostra tradizione ancestrale. Ha certamente il suo valore il centro scolastico bilingue di Špietar/ San Pietro al Natisone, ma secondo il mio modesto parere, non avendo contribuito se non parzialmente al travaso linguistico e culturale dai nonni/ genitori ai nipoti/figli, c’è il rischio che dialetto ed il mondo delle tradizioni secolari del passato vengano ridotte al rango folcloristico dei PowWow degli «indiani» canadesi, a riproduzioni museali, a ricordi sbiaditi dei tempi che furono.

Probabilmente, anche per le conseguenze dei disastri che la Naturaarrabbiata distribuisce a iosa ed i blandi tentativi di limitarne i danni, territori come quelli delle Valli potrebberovedere in un futuro neppur tanto lontano una qualche rivalutazione. Ma a qualsiasi sviluppo sarà sempre più improbabile poter attribuire la parola «naše/nostro» nel senso d’appartenenza e di identità che il termine una volta esprimeva.

Nelle nostre Valli il vero problema demografico si manifesta nel confrontotra il numero dei nati e quello dei morti considerando i dati dell’ultimo mezzosecolo trascorso. Questi dati, nel confronto con quello migratorio, vale a dire di emigrati ed immigrati, appaiono addirittura marginali, sebbene neidibattiti e nei mass media tutti attribuiscano a questo fenomeno l’impressionante calo demografico locale. Il famoso detto: «s trebuhan za kruhan – la pancia dietro il pane». Effettivamente, già nei primi decennidel secolo scorso, quando, ad esempio, i sette comuni del Natisone, contavanooltre 15 mila residenti, furono le giovani donne le prime ad emigrare perfare le «dikle/serve» in giro per l’Italia.Il fenomeno non si fermò e a tal proposito ricordo l’amara espressione colorita di don Gujon che parlò di «ratto delle Slavine» per denunciare la fuga anomala delle nostre giovanidonne. Non è un caso, da me personalmente verificato dai dati censuari, che nell’ultimo trentennio del secolo scorso ed oltre, più della metà della popolazione maschile locale risultasse «celibe». Anche per lacarenza in loco di partner in età procreativa. Ed allora, va detto per inciso, il termine «famiglia» aveva ancora il suo significato originale, così come quello di «matrimonio» e quello di «genere». E qui le problematiche si complicano. A tutti e tre i termini sono stati attribuiti significati complessi, equivoci, ambigui, implicando forme e contenuti morali, sociali e giuridici in costante fermento. Un fenomeno ormai senza confini territoriali, particolarmente acuto nel nostro Paese; tanto che non solo i demografi, bensì lo stesso papa Francesco lo denuncia senza mezzi termini.

Sarò certamente condizionato dalla mia età e dalla mia impostazione morale, religiosa e culturale, tuttavia non posso non prendere in considerazione, a proposito dei più attuali fenomeni demografici, la strana evoluzione dei comportamenti umani nel campo procreativo. Specie in Italia. Come dicevo, lo stesso papa Francesco denuncia «la tragedia dell’inverno demografico che attanaglia la nazione, che va contro le nostre famiglie, la nostra patria ed il nostro futuro». Fa impressione leggere che nelle famiglie italiane, quasi come membri effettivi, ci siano più animali da compagnia che tutta la popolazione censita e che, come denuncia il papa, essi, i cani o i gatti, sostituiscano, prendano il posto dei bambini. Altro che «paternità responsabile»!

Riccardo Ruttar

Deli članek / Condividi l’articolo

Facebook
WhatsApp