Aben vedere che cosa succede nel piccolo mondo «incasinato» delle valli del Natisone in relazione all’uso (o abuso) del denaro destinato alla comunità slovena, non pare superfluo rivedere il titolo della legge regionale n.26 del 2007. Trattasi di «Norme regionali per la tutela della minoranza linguistica slovena» con le quali l’ente predispone strumenti e condizioni per «tutelare e valorizzare la minoranza linguistica slovena, come parte del proprio patrimonio storico, culturale e umano». Vi sono precisi riferimenti alla legge 482/1999 che tutela le dodici minoranze linguistiche storiche in Italia, tra cui la slovena, e alla legge dello Stato n.38/2001, specifica per la minoranza slovena. Il quadro non potrebbe essere più chiaro. Dunque, accede di diritto ai provvedimenti della legge regionale 26 chi riconosce espressamente la propria appartenenza alla minoranza slovena. Se d’altro si parlasse, altro sarebbe anche il riferimento normativo.
Bene. E che cosa combina la commissariata Comunità montana nostrana? Degli scarsi fondi previsti da detta legge, ne delibera l’assegnazione al gruppo dei comuni facenti capo a S. Pietro/Œpietar qualcosa come 36.500 per iniziative cosiddette culturali quali la redazione di un vocabolario della lingua «natisoniana» (sic!) – e della lingua italiana, di una grammatica dello stessa lingua locale e di un fantomatico convegno. Dai testi allegati alle richieste di finanziamento non si evince che il «natisoniano» abbia attinenze con lo sloveno e neppure ci sono accenni di appartenenza a detta minoranza. La cosa buffa di tutta questa mistificazione sta nelle premesse pseudoscientifiche con cui si vorrebbe argomentare la richiesta: si parte dall’affermazione che non c’è distinzione tra lingua e dialetto, che dialetto e lingua hanno lo stesso valore e che, quindi, ogni lingua (non importa se razionalmente riconosciuta come dialetto) gode del diritto di tutela ed allo stesso livello.
Gli esperti linguisti valligiani sono supportati da ancor più esperto commissario che prende la cosa per buona ed approva l’assegnazione dei fondi alle iniziative proposte. Ovviamente tra le richieste di finanziamento non sono mancate quelle dei circoli e delle istituzioni operanti all’interno della comunità «slovena». Ma come è ben noto, gli amministratori che si sono insediati in cinque comuni sfruttando le ancestrali paure, i pregiudizi, l’ignoranza e la dabbenaggine di molti elettori nei confronti della propria appartenenza etnolinguistica, a quanto pare non le presero neppure in considerazione.
La loro posizione la si può leggere sul numero unico di un bollettino distribuito di recente dal comune di Stregna nell’articolo «Per intenderci». Vi si scrive: «Qui da noi, quelli che si sentono parte della Nazione slovena hanno già tanti diritti: hanno una scuola (che serve più ai friulani di Cividale che alla nostra gente), l’Italia e la Slovenia danno loro tanti soldi perché imparino a conoscere la cultura, la lingua e le tradizioni della Nazione slovena e di chi vive nella Repubblica di Slovenia».
L’estensore di queste fesserie (non dice che la scuola bilingue è una scuola «statale», accusando implicitamente lo Stato italiano di permettere che in essa si fomenti l’anti italianità), è lo stesso personaggio imbonitore che ha escogitato le iniziative di cui sopra.
Una parolina agli amministratori locali la vorrei dire: attenti a dare fiducia a personaggi ambigui e piccoli profittatori. Prima fareste bene a verificare quanto hanno fin qui fatto. Chi ha orecchie per intendere intenda. È un avvertimento evangelico che va bene anche ai laici. E direi una parolina anche ai responsabili regionali che validassero le scelte della Comunità montana: dare soldi (destinati per legge alla comunità slovena) a gente che di sloveno rifiuta persino il termine, tanto da non scriverlo neppure una volta nelle sue richieste di denaro, sarebbe, a mio avviso, un’appropriazione indebita.
Chi ha orecchie per intendere, intenda. Appunto.
Fondi per gli sloveni usati contro gli sloveni
Aben vedere che cosa succede nel piccolo mondo «incasinato» delle valli del Natisone in relazione all’uso (o abuso) del denaro destinato alla comunità slovena, non pare superfluo rivedere il titolo della legge regionale n.26 del 2007. Trattasi di «Norme regionali per la tutela della minoranza linguistica slovena» con le quali l’ente predispone strumenti e condizioni per «tutelare e valorizzare la minoranza linguistica slovena, come parte del proprio patrimonio storico, culturale e umano». Vi sono precisi riferimenti alla legge 482/1999 che tutela le dodici minoranze linguistiche storiche in Italia, tra cui la slovena, e alla legge dello Stato n.38/2001, specifica per la minoranza slovena. Il quadro non potrebbe essere più chiaro. Dunque, accede di diritto ai provvedimenti della legge regionale 26 chi riconosce espressamente la propria appartenenza alla minoranza slovena. Se d’altro si parlasse, altro sarebbe anche il riferimento normativo.
Bene. E che cosa combina la commissariata Comunità montana nostrana? Degli scarsi fondi previsti da detta legge, ne delibera l’assegnazione al gruppo dei comuni facenti capo a S. Pietro/Œpietar qualcosa come 36.500 per iniziative cosiddette culturali quali la redazione di un vocabolario della lingua «natisoniana» (sic!) – e della lingua italiana, di una grammatica dello stessa lingua locale e di un fantomatico convegno. Dai testi allegati alle richieste di finanziamento non si evince che il «natisoniano» abbia attinenze con lo sloveno e neppure ci sono accenni di appartenenza a detta minoranza. La cosa buffa di tutta questa mistificazione sta nelle premesse pseudoscientifiche con cui si vorrebbe argomentare la richiesta: si parte dall’affermazione che non c’è distinzione tra lingua e dialetto, che dialetto e lingua hanno lo stesso valore e che, quindi, ogni lingua (non importa se razionalmente riconosciuta come dialetto) gode del diritto di tutela ed allo stesso livello.
Gli esperti linguisti valligiani sono supportati da ancor più esperto commissario che prende la cosa per buona ed approva l’assegnazione dei fondi alle iniziative proposte. Ovviamente tra le richieste di finanziamento non sono mancate quelle dei circoli e delle istituzioni operanti all’interno della comunità «slovena». Ma come è ben noto, gli amministratori che si sono insediati in cinque comuni sfruttando le ancestrali paure, i pregiudizi, l’ignoranza e la dabbenaggine di molti elettori nei confronti della propria appartenenza etnolinguistica, a quanto pare non le presero neppure in considerazione.
La loro posizione la si può leggere sul numero unico di un bollettino distribuito di recente dal comune di Stregna nell’articolo «Per intenderci». Vi si scrive: «Qui da noi, quelli che si sentono parte della Nazione slovena hanno già tanti diritti: hanno una scuola (che serve più ai friulani di Cividale che alla nostra gente), l’Italia e la Slovenia danno loro tanti soldi perché imparino a conoscere la cultura, la lingua e le tradizioni della Nazione slovena e di chi vive nella Repubblica di Slovenia».
L’estensore di queste fesserie (non dice che la scuola bilingue è una scuola «statale», accusando implicitamente lo Stato italiano di permettere che in essa si fomenti l’anti italianità), è lo stesso personaggio imbonitore che ha escogitato le iniziative di cui sopra.
Una parolina agli amministratori locali la vorrei dire: attenti a dare fiducia a personaggi ambigui e piccoli profittatori. Prima fareste bene a verificare quanto hanno fin qui fatto. Chi ha orecchie per intendere intenda. È un avvertimento evangelico che va bene anche ai laici. E direi una parolina anche ai responsabili regionali che validassero le scelte della Comunità montana: dare soldi (destinati per legge alla comunità slovena) a gente che di sloveno rifiuta persino il termine, tanto da non scriverlo neppure una volta nelle sue richieste di denaro, sarebbe, a mio avviso, un’appropriazione indebita.
Chi ha orecchie per intendere, intenda. Appunto.
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