Il comune governato dalla vicinia aveva anche i suoi confini ben segnati onde evitare liti e contese. Ogni comune e ogni villa erano gelosi custodi dei propri confini, ai quali erano legati molti interessi, tra cui l’utile dei boschi e dei pascoli. I comuni erano impegnati a controllare frequentemente i propri confini e a denunciare eventuali spostamenti e usurpazioni.
In periodo veneto i testimoni che dovevano accertare le demarcazioni (i S. Marco) venivano eletti in Vicinia. Erano ordinariamente i più anziani e i più bene informati. Dovevano giurare di dire la verità che risultava dal controllo; alle volte erano accompagnati dal notaio (P. Bertolla senior, Confini e pascoli della pieve di Nimis, in “Pagine Friulane”, III, 1890, 12, pp. 195-197).
Il confine nella fattispecie era insieme civile ed ecclesiastico. Non era documentato da mappe o da registri catastali ma da appositi termini di pietra, che nel periodo patriarcale erano segnati dalla croce, mentre sotto il dominio veneto venivano indicati dal leone alato, per cui la pietra che portava questo simbolo era detta comunemente il San Marco.
Pertanto, l’importanza della confinazione riguardava i beni comunali o frazionali. Ma esistevano anche i beni di godimento comune (pievanali e gastaldiali), cioè degli abitanti delle ville, e interessavano tutto il territorio della Pieve.
Lo strumento legislativo per deliberare i fabbisogni inerenti al vivere quotidiano, nelle ville friulane veniva esercitato tramite il comune rustico.
Ciò che dava alla Vicinia un carattere speciale di autogoverno era la molteplicità delle sue attribuzioni. Più che un’assemblea amministrativa, era una sintesi di tutti i poteri. Anche tutto l’occorrente necessario per il culto, nonché per la manutenzione dell’edificio chiesiastico era di esclusiva competenza del Comune, cioè della popolazione per il tramite dei camerari, persone direttamente scelte dalla Vicinia a governare la chiesa e le fraterne, in tutte le necessità comprese quelle amministrative. I compiti erano svariati: quello precipuo consisteva nell’incombenza d’intaccare o modificare le strutture dell’edificio sacro per far luogo ad una nuova produzione artistica: un altare, una pala, una cappella ecc. Altro compito era quello di soddisfare coloro che avevano operato per le realizzazioni di queste opere. Nel caso di morosità, su specifica denuncia, interveniva il tribunale ecclesiastico.
Così per ogni lavoro da intraprendere il controllo era duplice: ottenere i preventivi premessi del Pievano e della Curia patriarcale, in quanto il patriarca (arcivescovo, vescovo) era il tutore dell’integrità di ogni cosa sacra. Fino a Napoleone, in chiesa comandavano i Comuni o le Comunità e non i preti, i quali venivano eletti cappellani dalle Vicinie. Quando a qualche cappellano saltava il ghiribizzo di far qualcosa di testa sua, magari soltanto di allargare la finestrella della sacrestia per avere più luce, i rappresentanti del Comune piombavano in Curia e gli facevano intimare di non impicciarsi, perché la chiesa era del paese non sua. Il prete non doveva far altro che compiere le funzioni ecclesiastiche, ed anche quelle secondo la consuetudine di cui il Comune era geloso custode.
Anzi, in molti paesi lo stesso prete veniva assunto dal Comune per un certo periodo, allo scadere del quale, se non era piaciuto alla maggioranza, veniva escomiato. Era compito dei camerari o dei loro delegati ottemperare alle clausole dei contratti stipulati, inerenti lavori o commissioni o compere varie, altrimenti si cadeva nelle liti. Da specificare che ogni piccolo paese, retto a Vicinia, deliberava se costruire o demolire chiese o parti di esse, se erigere o demolire altari, se commissionare pale pittoriche o sculture, se rifondere o comprare campane, a cui seguiva il placet dell’autorità preposta.
(2. continua)